I libri spariti d'Iran

Leggere Lolita a Teheran è diventato quasi impossibile. C'entra la protesta

Cecilia Sala

Nell'anniversario della protesta le università cacciano i professori che hanno protetto i propri studenti dalla polizia. C'è una stretta silenziosa anche su libri e librai, e i traduttori sono in crisi

L’Iran è tra i dieci paesi che pubblicano più titoli al mondo, oltre centomila e più o meno quanti se ne stampano ogni anno in Francia, molti sono stranieri e sull’edizione iraniana il nome del traduttore compare sulla copertina ed è scritto in caratteri grandi quasi quanto quelli usati per l’autore. Tradurre la letteratura internazionale è una professione molto stimata, ma oggi il traduttore iraniano di Pier Paolo Pasolini dice che andrebbe fallito se non avesse anche un incarico all’Università (“finché  me lo lasciano”). Alla stretta silenziosa del governo sui libri che arrivano dall’estero ne corrisponde una coerente e parallela che riguarda gli accademici. E i dissidenti che hanno “soltanto la colpa di pensare” e di leggere moltissimo, come Majid Tavakoli, che rischia di tornare in carcere anche se ha smesso di manifestare da anni.  

L’università, come la letteratura e il teatro, sono istituzioni quasi sacre per la società iraniana: anche le autorità si vantano continuamente delle proprie case editrici, che sono tante e prolifiche rispetto al resto del medio oriente, e delle moltissime fiere di libri e festival di cinema che si tengono ogni anno in giro per il paese. Ma all’ultima fiera del libro di Teheran, il presidente conservatore Ebrahim Raisi ha invitato tutti gli editori a concentrarsi sugli scrittori locali (e non intendeva quelli dissidenti) e sui testi islamici piuttosto che pubblicare gli europei, gli americani o i canadesi che vendono moltissimo – anche se spesso finiscono in libreria parzialmente censurati – come Margaret Atwood. O come Pasolini.

Le quote di testi tradotti sul numero di pubblicazioni totali diminuisce trimestre dopo trimestre di circa il 30 per cento, e i traduttori sono in crisi. Il governo non ha un potere diretto sull’editoria, ma il ministero della Cultura e il comitato di saggi che supervisionano i testi per censurare le scene considerate blasfeme hanno molti modi per fermare le pubblicazioni, ritardarle all’infinito, e scoraggiare il settore dei libri internazionali. La stampa riformista iraniana, guardando ai numeri dell’editoria, è arrivata alla conclusione che i censori, soprattutto nell’ultimo anno, cioè da quando Mahsa Amini è morta ed è iniziata una protesta persistente, siano diventati più paranoici e quindi più rigidi. 

Le autorità da aprile hanno preso di mira i librai cominciando a multare anche loro (non più soltanto le ragazze) se vendono riviste, romanzi o saggi alle migliaia e migliaia di donne che non indossano più il velo. Da Karaj a Isfahan è pieno di librerie indipendenti che hanno chiuso almeno temporaneamente da quando i poliziotti sono arrivati a mettere i sigilli perché avevano scorto dei capelli liberi dietro uno scaffale dentro le mura del negozio. 
Da due settimane va più veloce anche la caccia a chi è stato solidale con le donne e gli uomini del movimento “Donna, vita, libertà” dentro le università. Alla fine di agosto il corso dello storico iraniano Dariush Rahmanian, uno dei professori più famosi della sua facoltà all’Università di Teheran, è stato sospeso. Qualche giorno dopo Ali Sharifi-Zarchi, professore di Intelligenza artificiale e Bioinformatica della Sharif – che è soprannominata “la fabbrica dei geni” e considerata “l’Mit del medio oriente” dentro e fuori l’Iran – ha scritto su X (ex Twitter) di essere stato cacciato dal politecnico. Ha detto di aver perso il posto per aver mostrato solidarietà a chi è sceso in piazza a Teheran e per aver protetto i suoi studenti dalla polizia ogni volta che ha potuto. L’ex capo dell’Agenzia nucleare iraniana ha commentato dicendo che allontanare una mente come quella di Sharifi-Zarchi è una pugnalata che il regime dà a se stesso.  
Qualche settimana prima erano stati licenziati il professore di Sociologia Mahdi Khoei e la professoressa di Psicologia Ameneh Aali.  Aali ha raccontato al giornale online Didban-e di essere stata lasciata a casa con una telefonata e senza una spiegazione, ma è convinta di sapere quale fosse il motivo: si era opposta al tentativo di espellere dalla sua classe tutte le alunne e gli alunni che hanno manifestato.
 

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