reportage
Le voci dell'emergenza, da Kyiv al fronte, alle prese con scelte feroci. Vince sempre la vita
Tata e Kateryna, la “farmacista” e il medico che salvano vite in Ucraina tra protocolli da violare e lacci emostatici
Kyiv, dalla nostra inviata. I pantaloncini verde militare hanno un’apertura lunga laterale, sono più facili da togliere e mettere, hanno una piccola scritta in ucraino che è anche il loro brand: più o meno vuol dire “siamo indistruttibili, ’sti cazzi”. Questo è uno dei prodotti della “Farmacia di Tata”, il regno di Tata Kepler a pochi passi da Maidan, una macchina di volontariato che si chiama Ptakhy (uccelli) e che fornisce assistenza ai medici e paramedici dell’esercito, medicine per i civili, organizza missioni mediche nei luoghi più sperduti, “ci siamo dove il sistema non riesce ad arrivare”, dice la Kepler aggirandosi per questo spazio zeppo di “tactical medicines”, seguita dal suo cane geloso. Trentenne, capelli lunghi rossi con treccine verde-nero, smalto nero, un lungo abito nero, carattere forte e talvolta di pessimo umore, Tata Kepler gestiva uno dei bar più conosciuti del centro di Kyiv e scriveva sceneggiature con l’ambizione di far diventare questo il suo lavoro.
Poi nel 2014 c’è stata la prima invasione della Russia in Ucraina e lei ha iniziato a fornire assistenza medica all’esercito mettendo insieme un gruppo di volontari. Nel 2022 questa iniziativa è diventata grande, il presidente le ha dato l’anno scorso un premio, la chiamano “la regina dei soldati”, dice la sua amica Yulia che la conosce “da prima” e la ammira molto – prima e dopo è il modo con cui si scandisce il tempo a Kyiv, il passato e soprattutto il futuro, prima del 24 febbraio e dopo, che è adesso, ed è la ricerca di un equilibrio che leggi negli occhi di tutti, tra disciplina ed emozioni, tra il bisogno di vivere e la convivenza con la morte. Kateryna Galushka è un paramedico del battaglione volontario Hospitaliers e si occupa di comunicazione nelle Forze armate ucraine e conosce molto bene il confine tra disciplina ed emozione: se lo ritrova davanti ogni volta che bisogna recuperare i corpi dei soldati uccisi dall’esercito di Putin.
“C’è un protocollo da seguire – dice – e prevede che il personale medico non si metta mai in pericolo”: il medico deve pensare prima a sé, perché la sua competenza serve per salvare gli altri, i feriti. Kateryna è seduta sul divano verdone del Veteran Hub di Kyiv, accanto a Kateryna c’è un medico del reggimento Azov che era nell’acciaieria di Azvostal con 600 feriti e senza medicinali per curarli, di fianco a lui un capitano che è stato ferito alla testa e alle gambe da nove colpi di kalashnikov a distanza ravvicinata nei pressi di Zaporizhzhia ed è stato quattro mesi in ospedale e poi un soldato che è stato ferito e catturato dai russi, poi restituito in uno scambio. C’è il protocollo ma poi “c’è il fattore umano”, dice Kateryna ed è già chiaro qual è la sua scelta: pensa ai famigliari del soldato ucciso, pensa a quanto sia importante quel corpo per molte persone e il protocollo perde significato, i corpi si recuperano, “a volte ci vogliono dei giorni e a volte è molto rischioso e un medico ucciso equivale a dieci soldati che possono perdere la vita perché non hanno chi li cura”. E’ un calcolo osceno, ma il fattore umano ha il sopravvento, difficilmente ci sarà un rimprovero – Kateryna dice con un sorriso che non è necessario dire sempre tutto ai propri capi – e i propri soldati si riportano a casa: sono i russi che abbandonano i cadaveri dei loro morti e che recuperano i feriti ucraini ma fanno il minimo necessario per tenerli in vita, non si può nemmeno chiamare “cura” questa, è solo carne utile da scambiare. Per gli ucraini ogni vita conta.
“Non potete capire quanto è importante questo”, dice Tata Kepler, tirando fuori un tourniquet da uno scatolone, mentre una ragazza mette insieme il kit di primo soccorso in guerra e un uomo grosso e sorridente appena rientrato da una missione a Kharkiv sistema altre scatole. Il tourniquet è il laccio emostatico per fermare le emorragie: ora nei corsi che fanno tutti per saper aiutare i feriti, ti insegnano a metterlo bene, soprattutto a chiuderlo bene perché la stretta condiziona la pressione del sangue e della ferita. Nei manuali per utilizzare i tourniquet si dice che vengono utilizzati da personale specializzato, ma qui impari a sparare, impari a mettere bene un laccio emostatico, impari a resistere, impari tantissimo ad aspettare. Nella farmacia di Tata ogni oggetto parla di vita e di morte, proprio come l’intera Ucraina: c’è l’angolo degli zaini dei medici che vanno sul fronte, con un design più funzionale “che ha fatto un mio amico”, c’è quello dei kit per bambini con le scritte e i disegnini, l’abbigliamento, le scatole delle medicine, in un angolo anche dei resti di missili, “i trofei” come li chiama Tata Kepler riportati a casa dalle missioni. Per ogni città ucraina, lei ha una storia da raccontare, una famiglia salvata, un soldato rimasto ucciso, un ricordo che dà speranza e un altro che lo toglie. “Abbiamo salvato una gamba oggi”, dice mostrando una foto un po’ spaventosa e ride, “non avete idea di che immagini ci sono in questo telefono”. Ricorda la campagna vinta per cambiare il modo con cui vengono chiamati i morti che non sono stati identificati – “cargo 200” per i sovietici, ora nell’Ucraina che si difende da Putin “sullo scudo”, un’altra espressione che ricorda coraggio e disciplina, “con lo scudo o sopra lo scudo”, vittorioso o morto – e per ogni aneddoto c’è “un amico” che dà il suo aiuto.
Non si riesce a stare fermi, dice Tata e dicono tutti in questa città operosa in cui ognuno ha deciso di dare il suo contributo e continua a farlo, gli occhi esausti di un anno e mezzo di resistenza e l’inevitabilità del coraggio. Kateryna racconta il tempo lungo del salvataggio dei corpi, l’odore che c’era ad Avdiivka, nel Donetsk, quando i russi hanno lasciato per tre settimane i cadaveri dei loro soldati anche se avrebbero potuto recuperarli senza rischi. Dice anche che succede di dover salvare soldati russi e di fronte a questi corpi il dilemma tra la razionalità – curiamoli e scambiamoli – e la rabbia – ci stanno uccidendo per la sola ragione che siamo ucraini – si ripresenta forte. Emozioni e disciplina si incrociano, il rispetto per l’essere umano ha il sopravvento, c’è questa convivenza struggente e potente assieme qui, la voglia di vita e la morte che piomba dal cielo, dalla terra, dal mare, una quantità di scelte impossibili da fare in ogni momento: per proteggersi e per vivere. La grande differenza tra Kyiv e una capitale europea sta qui: Kyiv è l’unica in guerra, il costo umano è solo suo.