Laburista in volo
Chiusa la stagione delle stramberie corbyniane, Starmer spinge il Labour in vetta nei sondaggi
E’ il trionfo del pragmatismo inglese. Con la campagna elettorale alle porte, il nuovo governo ombra in formato “rifondazione blairiana” non sta suscitando tutto l’orrore che appena due anni fa sarebbe stato inevitabile per il partito
Quando rottama, non va certo a raccontarlo in giro, Keir Starmer: colpo secco, necessario, si volta pagina. Anzi, ha una curiosa avversione per le auto-narrazioni questo avvocato di alto profilo e di origini umili, entrato in Parlamento nel 2015 e diventato leader di un partito che ora, dopo tre anni, appare plasmato non solo a immagine e somiglianza sua, ma anche a immagine e somiglianza dell’ultimo Labour vincente della storia britannica, ossia quello di Tony Blair. La notizia è che ora che i venti da campagna elettorale iniziano a soffiare fortissimo nel Regno Unito, il suo nuovo governo ombra in formato “rifondazione blairiana”, con vecchie glorie di quella stagione come Hilary Benn e Pat MacFadden nei ruoli chiave, non sta suscitando tutto l’orrore che appena due anni fa sarebbe stato inevitabile. E questo dimostra che Sir Keir ha lavorato bene, facendosi ampiamente sottovalutare per apparire più innocuo e annoiando l’elettorato per un periodo sufficiente a far rimarginare le ferite dell’orrenda stagione peri-Brexit, dominata dal tossico radicalismo di Jeremy Corbyn e i funambolismi di Boris Johnson. Starmer odia le polemiche, evita tutto quello che può spaccare l’opinione pubblica e in questo è l’esatto opposto di Johnson, che di narrazioni forti e opinioni controverse si è nutrito fino all’ingloriosa fine politica. Anzi, si sospetta che anche la sua arte oratoria da avvocato di altissimo profilo sia stata tenuta a bada per non fare il gioco degli avversari, esterni e interni, che di soundbite decisi e quindi contestabili vanno ghiotti, soprattutto al Question Time, che per Starmer sotto sotto è uno strumento di divisione e di polarizzazione di cui il paese ha veramente poco bisogno al momento.
Per tre anni ha ignorato tutti i panchinari politici che gli urlavano di fare di più, prendere posizione su tutto, dire cose di sinistra e tutto il solito repertorio, e ora che il partito non solo sta volando nei sondaggi – 15 o 18 o 20 punti a seconda dei giorni davanti ai bollitissimi Tories, nonostante il lavoro più che dignitoso fatto dall’ugualmente ragionevole Rishi Sunak – ma sembra finalmente adatto a entrare a Downing Street, il suo disegno appare più chiaro. Per anni tutti hanno detto di non sapere quali fossero i suoi princìpi, i suoi ideali, “what he stands for”, o forse fingevano di non capire magari nella segreta speranza che andasse a parare proprio lì: ha tirato fuori i blairiani, e non per particolare affetto verso quel periodo, ma perché condannare un’intera generazione politica – una generazione vincente, hai detto poco – all’oblio per una ragione sacrosanta, certo, come le bugie sull’Iraq, non può far dimenticare i successi sul fronte interno, il dinamismo di un paese cool in cui la redistribuzione andava a gonfie vele e dove anche le modelle erano working class.
Ha fatto un “amazing job”, un “lavoro fantastico”, per dirla con Tony Blair, rispetto a cui Starmer ha un approccio opposto: è arrivato alla politica tardi, dopo essere stato un QC, un Queen’s Counsel, e procuratore capo della corona, noto per il suo lavoro sui diritti umani, tanto che per anni è circolata la clamorosa voce (sempre smentita) secondo cui il giovane Keir, aitante e un po’ mascellone, sarebbe in realtà il modello a cui si è ispirata Helen Fielding, l’autrice di Bridget Jones, nel creare il personaggio di Mark Darcy. Uno sguardo alle vecchie foto rende l’ipotesi più che credibile, ma purtroppo pare proprio che non sia andata così e il culto della personalità non è roba per Starmer, che non romanticizza neppure la sua notevole storia personale. La madre era un’infermiera e il padre un attrezzista, la famiglia era numerosa, i soldi pochi e Keir, chiamato così in onore del primo leader parlamentare laburista, Keir Hardie, uno studente fenomenale. Girano immagini di un passato radicale e sognatore, così simile a quello di tanti sessantenni che ce l’hanno fatta e che non per questo sono diventati Tories. Era pure antimonarchico, un tempo, oltre a volere un sistema giudiziario più vicino alla gente, senza parrucche e mantelle nere, e questa sua adattabilità ideologica gli è stata spesso rinfacciata, tanto che gli osservatori lo iniziano ad accostare a un’altra figura di leggendaria, placida spietatezza politica: Angela Merkel.
D’altra parte nessuno sarebbe riuscito nell’impresa di cacciare dal partito il predecessore Jeremy Corbyn senza finire travolto dalle polemiche e la sua mitezza apparente è stata un ottimo anestetico. L’argomento era fortissimo e importante, ossia stroncare in via definitiva l’antisemitismo neppure troppo strisciante che aveva preso piede nel Labour e che aveva portato a proteste e dimissioni di alto profilo di due deputate le cui denunce non erano state prese sul serio dai vertici di allora. Oltre a quello c’era il problema di gestire l’eredità politica di Corbyn e dei suoi accoliti, spesso giovani, tutti presi a rivendicare la non vittoria del 2017, quando Theresa May aveva perso la sua maggioranza in parlamento ed era stata costretta a governare con il sostegno esterno degli unionisti nordirlandesi. Il più dolce dei risultati, la gloriosa opposizione dei no senza mai l’inconveniente di dover governare, di dover diventare grandi. Poi quando nel 2019 è arrivato Boris Johnson, la sconfitta era stata tonante, con 11 punti di stacco, il peggior risultato dal 1935 e un messaggio chiaro: i britannici non volevano essere governati da Corbyn e dalla sua setta di inaffidabili. Pure Rebecca Long-Bailey, che aveva ritwittato un’intervista in cui si diceva che George Floyd era stato ucciso usando i metodi imparati dai servizi segreti israeliani, è stata cacciata senza tante cerimonie.
Perché il Labour strambo a Keir Starmer non piace e se il partito vuole avere l’aria di essere capace di governare, deve partire dalle piccole cose. Toni istituzionali, please, come dimostra anche la scelta di assumere come capo di gabinetto Sue Gray, civil servant già nota per il report sulle festicciole in tempo di Covid di Johnson, per essere sicuri che il partito sia pronto alle elezioni. Il clima da occupazione del passato è finito, anche i sindacati e gli oppositori interni appaiono sorprendentemente concilianti, ma non si dà nulla per scontato e quei punti di vantaggio nei sondaggi ci sono e vanno tutelati, curati, fatti crescere. “Lo starmerismo è molto più incentrato sul “come” che sul “cosa””, ha dichiarato in un’intervista a The Economist. La sua idea è che i britannici siano un paese di conservatori con la c minuscola, pronti alle riforme anche più audaci solo davanti all’assicurazione che i loro valori fondamentali non verranno toccati. Il riformismo deve essere riconoscibile, allineato con i principi dell’elettorato: una volta che hai ottenuto quel tipo di fiducia, puoi fare tutto. Il mantra di Starmer e della sua cancelliera Rachel Reeves è che bisogna innanzitutto crescere. Le tasse non si toccano, tranne due o tre cose: le esenzioni per le scuole private, per le private equities e per i non domiciliati, con l’extra gettito a favore di personale sanitario e insegnanti. Questo vale anche quando si tratta di mantenere misure odiose come il limite degli assegni famigliari al secondo figlio, messo nel 2017 da George Osborne con l’obiettivo di convincere le classi disagiate a mettersi a lavorare di più o fare meno figli. Non ha funzionato affatto, ma abolirlo costerebbe 1,3 miliardi di sterline all’anno e Starmer ha detto che non ci sono i presupposti economici per farlo. “Se suono conservatore lasciate che ve lo dica: non mi interessa”, ha detto in un discorso a maggio scorso.
D’altra parte per Starmer è evidente che se il Labour vuole proteggere il welfare state, deve far girare l’economia in modo tale da poterselo permettere: il pil è tutto, viene prima dell’identità e di tutto il resto, l’importante è riconquistare la fiducia delle imprese e dell’elettorato non urbano che del Labour non vuole sentir parlare da più di un decennio. Le sue missioni sono la crescita, la decarbonizzazione, l’NHS, la criminalità e l’istruzione, con un occhio da “manager migliore” a problemi come quello delle infrastrutture scolastiche in dissesto. Al centro di tutto c’è una strategia industriale verde, con 28 miliardi di sterline di spesa in conto capitale e la creazione di un operatore di energia statalizzato, che però viene pubblicizzato come qualcosa di rivolto a far crescere l’occupazione e gli investimenti: la parola “verde” rischia di allontanare l’elettorato, anche se poi il cuore della questione è proprio quello. Lasciare le cose come sono “è sempre la risposta sbagliata” secondo Keir, un politico che ha evitato accuratamente che la narrazione intorno a lui crescesse a dismisura.
Preferisce fare che dire, ma per riuscire a fare sa anche di dover evitare le trappole. “Non ho mai creduto che ci fosse un appetito per la politica delle culture wars in questo paese”, ha spiegato, e le femministe laburiste hanno applaudito: si può parlare di politiche basate sui sessi, non esiste solo il gender. Ha visto quello che è successo in Scozia, dove la carriera politica di Nicola Sturgeon è implosa per una serie di motivi gravi tra cui il fatto di aver fatto il passo più lungo della gamba sull’autocertificazione senza bisogno di diagnosi medica per il riconoscimento del gender, finendo bloccata dal governo centrale. Il Labour vuole dare un calcio al cerchio e uno alla botte, ossia rendere più facile la transizione di sesso ma anche mantenere degli spazi sicuri per le donne. Per Starmer non solo l’autocertificazione “non è il giusto modo di procedere”, ma Il gender è “troppo tossico” e tante femministe laburiste si stanno finalmente sentendo meno a disagio, dopo gli anni in cui parlare di sesso biologico è stato un dramma.
L’altro tema tossico è la Brexit, su cui è arcipragmatico: certo non l’ha votata, ma preferisce farla funzionare che spaccare ulteriormente il paese. L’elettorato è alle prese con il costo della vita e con i servizi pubblici al collasso e di rimettersi a litigare non ha voglia: se vota Starmer è perché vuole un adulto nella stanza. Tanto gli europeisti sono già pro-Labour, gli indipendentisti scozzesi sono in uno stato pietoso e l’importante è riuscire a negoziare piccoli riavvicinamenti con l’Unione europea in modo da far ripartire l’economia. La vita privata non è esibita, mai. Ha una moglie davvero molto bella, Victoria Alexander, coetanea ex avvocatessa ora in forze all’NHS. Non ama farsi vedere troppo in giro, ma non ha la legnosità di quelle che di solito vengono definite “sobrie” dai giornali italiani: se c’è da applaudire applaude, si veste di rosso, va allo stadio e dà pure dei gran baci. Solo che non le interessa la vita sotto i riflettori. Stanno insieme da tanto, si sono conosciuti sul lavoro, hanno due figli adolescenti cresciuti nella religione ebraica come la mamma, abitano in una bella casa a Camden, vanno in sinagoga, fanno i bar mitzvah, passano il venerdì sera in famiglia.
Sul Financial Times Janan Ganesh dice che il Regno Unito è il paese che, avendo sofferto di più dei pavoneggiamenti estremisti da una parte e dall’altra, sta dimostrando che l’elettorato dopo un po’ si stufa e torna a più miti consigli. Il pragmatismo, tratto inglese che sembrava dimenticato per sempre, a un certo punto riemerge: Sunak e Starmer ne sono la prova, sono due bravi ragazzi con la testa sulle spalle, decisi a superare la caotica eredità dei loro predecessori senza sconfessarla apertamente, senza alzare polvere. Meglio lasciare che venga superata dai fatti, dimenticata. Per entrambi è difficile perché hanno due partiti che pullulano di estremisti, ma è vero che Starmer, silenziosamente, ha fatto il miracolo di riaffermare i principi della società civile. Le elezioni potrebbero essere già l’estate prossima, tutti lo danno per vincitore ma si sorprendono che non voglia raccontare una favola agli elettori, un’idea di paese che li aiuti ad orientarsi. E invece qui c’è il più politico dei tecnocrati o il più tecnocratico dei politici che per ora preferisce tenere le sue carte ben nascoste e lasciarsi sottovalutare ancora per un po’ mentre lenisce, risana, prepara il terreno ad altro, perché – come ama dire – non cambiare niente non è mai la soluzione.
tra debito e crescita