photo by Kostiantyn Huzenko

Il rumore dell'occupazione e il silenzio della liberazione. Il racconto da Yahidne

Paola Peduzzi

La contabilità del sotterraneo occupato dai russi tra desiderio di vita ucraino,  testimonianze di morte e quell’abbraccio di Ivan

Yahidne, dalla nostra inviata. C’è la storia degli edifici distrutti dalla violenza russa e ci sono le storie delle persone che vivono in questi edifici: la distruzione si moltiplica e non c’è una formula per quantificarla. Poi ci sono degli edifici che sembrano soltanto abbandonati: non vedi il danno, ma la sproporzione dell’aggressione russa è nelle storie dei sopravvissuti, scritta sui muri. Come la scuola in fondo a sinistra, dopo la casa bruciata, a Yahidne, nella cintura intorno alla città  di Chernihiv, a nord di Kyiv. Sul cancello ad accoglierci c’è Ivan, un abbraccio a ciascuno, qualche ora prima è arrivato qui Antony Blinken, sorride e ci chiede se stiamo bene. E’ la prima volta che questo signore “dai troppi anni” (sono 63), gli occhi azzurri e le mani grandi da contadino, mi fa commuovere. Lo farà poco dopo, prima di entrare nel sotterraneo della scuola dove lui e altre 367 persone sono state tenute chiuse dai soldati russi per 27 giorni, nel marzo del 2022, in una cantina senza finestre. “Attenzione al muro basso e al gradino, non fatevi male”, dice Ivan con quella cura che hanno tutti qui, come a proteggere chi non è ucraino dall’orrore riservato agli ucraini.  

 

 Ad accoglierci c'è Ivan, sorride e ci chiede se stiamo bene

 

Sulla porta verde della cantina c’è la scritta in russo: “Attenzione, bambini”: è rossa, si vede bene, ogni avviso in Ucraina è scritto in russo perché è un messaggio rivolto ai russi – che li ignorano.  In fondo ai pochi gradini della cantina c’è un tavolo con alcuni indumenti e una scatola con una scritta russa: conteneva scatolette di cibo. Ce ne sono tante in giro, ma il cibo non è mai stato abbastanza per i prigionieri ucraini nella cantina. Ci sono sette vani, chiamarle stanze è eccessivo, sullo stipite verdino di ogni porta ci sono due numeri: uno indica gli adulti, uno i bambini che sono stati in quella stanza per 27 giorni senza quasi muoversi, perché lo spazio non c’è: 50 centimetri quadrati per ognuno, se si contano anche le scale e il corridoio stretto. Nella stanza in fondo a destra, il numero cerchiato degli adulti è diciannove, quello dei bambini è nove: la stanza è minuscola, cinquanta centimetri di spazio vitale sembra una media sovrastimata. Questi numeri fanno parte della contabilità del sotterraneo: si contano i giorni, si contano le persone, si contano i cucchiai necessari per nutrire ognuno, si contano i morti – quelli fucilati nel cortile fuori, oltre la staccionata, prima che i russi chiudessero i 368 di  Yahidne nel sotterraneo e quelli che sono morti durante la prigionia. Per i morti, ci sono anche i nomi. 

 

I nomi degli undici morti

 

Scendendo dalle scale a destra c’è la “stanza grande”, 136 adulti, 39 bambini: originariamente era una piccola palestra, in fondo ci sono ancora tre spalliere, ma da ultimo era diventata un ripostiglio. Ivan ha passato lì tutti i 27 giorni, seduto su una sedia scura non troppo grande, con vicino un letto a castello da bambini, alto circa un metro e di colore lilla: ci dormivano otto bambini, tra cui i nipoti di Ivan. Di fianco al lettino, ci sono dei tavolini verdi, bassi e lunghi, sembrano delle porte: lì erano stati messi i morti, i russi non li portavano fuori, se li dovevano tenere con loro. 

 

La stanza grande

 

Tutte le undici persone che non sono sopravvissute, sono morte nella stanza grande, perché lì non ci si muoveva, mancava l’aria, lo spazio vitale non era sufficiente, a un certo punto hanno preso la varicella, febbre alta per molti. Nell’angolo in fondo a destra, di fianco alla spalliera, c’era la prigioniera più piccola, una bambina di un mese e mezzo: la sua mamma non aveva più il latte, cercava cibo adatto per svezzarla all’improvviso senza farla stare male, ma i russi non le davano nessuno aiuto né più spazio, anzi le dicevano di lasciarla morire. I russi giocavano sadici con i loro prigionieri, ai bambini davano le granate per intrattenerli, distribuivano il loro giornaletto-propaganda, cambiavano le regole per cui  l’unica volta al giorno in cui si poteva uscire per andare ai bagni esterni alla scuola veniva negata, e i secchi usati in sostituzione non venivano puliti. L’ultima stanza in fondo era quella della contabilità complessiva: i nomi delle persone uccise prima di entrare sul muro a sinistra della porta verdina, i nomi degli undici morti a destra e sulla porta il calendario. Ai ganci improvvisati appesi alle pareti ci sono ancora degli indumenti, un maglione, un paio di guanti, in un angolo su una mensola ci sono due trattori giocattolo, nella stanza grande ci sono dei disegni colorati, la scritta: “no alla guerra”.

 

Nella stanza grande ci sono dei disegni colorati, la scritta: “no alla guerra”

 

“Non ho mai creduto che saremmo sopravvissuti”, dice Ivan spalancando gli occhi, la speranza è un lusso quando sai che il tuo carceriere non ha alcun rispetto per la vita umana, tanto meno per la vita umana degli ucraini. Il capo dei russi lo chiamavano “Ragno”, era il più crudele, gli altri due si chiamavano “Acero” e “Sordo”. In quel sotterraneo Ivan ha imparato a riconoscere i suoni delle battaglie e degli scontri, così quando il 30 marzo ha sentito silenzio, ha capito. O forse ha soltanto sperato: la porta della cantina era chiusa, l’hanno sfondata, i russi non c’erano più. Dei 368, qualcuno è andato via per non tornare più, qualcuno ha avuto paura di tornare nella propria casa saccheggiata e minata ed è tornato a dormire nel sotterraneo dell’orrore, “ma lo abbiamo un po’ migliorato”, dice Ivan. Lui oggi accompagna i visitatori, dice che ogni volta rivive quella paura e quella  assenza di speranza, ma è importante che i testimoni raccontino, senza le testimonianze non ci sarà giustizia – e in questa sproporzione di ferocia, la giustizia è l’unico balsamo. Riemergiamo dal sotterraneo, Ivan si preoccupa per i visi rigati di lacrime, non racconta nulla di Blinken, sorride e ha gli occhi che si illuminano. Suona l’allarme, un mig russo si è alzato in volo. L’abbraccio del saluto è strettissimo e lungo, vuole consolarmi, lui a me, mi commuovo per l’ultima volta davanti a lui. Nella stanzina con i trattori, di fianco al 30 marzo c’è la scritta: “Sono arrivati i nostri”, e un cuoricino.

 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi