(foto EPA)

negli usa

Trump mentiva e lo sapevano tutti. I repubblicani potevano isolarlo, non lo hanno fatto

Paola Peduzzi

La complicità del Gop, che si è rassegnato al potere eversore dell'ex presidente. E lo spettacolo mesto della democrazia

Donald Trump ha mentito sapendo di mentire, lo ha fatto anche se molti dei suoi gli dicevano: questa è una follia. Lo ha fatto per non cedere il potere a Joe Biden, legittimamente eletto, ma lo ha fatto anche per non consegnare agli archivi nazionali i documenti riservati rimasti negli scatoloni di Mar-a-Lago. Quest’ultima incriminazione dell’ex presidente americano portata avanti dall’ostinato Jack Smith, special prosecutor dall’aria sofferta (sarà che questo è uno spettacolo orribile per la democrazia americana, anche se sei tu a metterlo in scena), mette in chiaro, oltre all’oscenità del piano cospiratorio contro il proprio stesso paese, le bugie deliberate, l’inganno preparato e voluto – l’inganno noto a tutti. E questo è il punto politico dirimente, la ragione per cui questo spettacolo era evitabile – o almeno poteva non essere così sensazionale – se fosse stato il Partito repubblicano, il partito di Trump, a mettere in atto l’isolamento necessario per un leader che ha messo a punto un piano eversivo che di fatto dura ancora oggi, perché quel metodo, mentire, annichilire, cospirare, è la conquista e l’esercizio del potere secondo Trump.

 

Erano i repubblicani che dovevano fermare il loro presidente, visto che sapeva lui e sapevano tutti che i brogli elettorali erano una bugia.  Tanto più che il Partito repubblicano aveva dovuto digerirlo, quel presidente che non voleva, aveva dovuto prendergli le misure per poi inventarsi strumenti di contenimento, per incanalarlo dentro quel che era sempre stato l’establishment, e renderlo un po’ più simile alla tradizione. Quando Trump si era imposto alle primarie repubblicane nel 2016, i primi a disperarsi erano stati i suoi compagni di partito che lo avevano preso per la solita barzelletta di inizio ciclo elettorale e poi avevano dovuto nominarlo come loro candidato in quella convention d’agosto muta e impietrita. Poi la regola è che chi vince ha ragione, ma qualche tentativo di trattenere l’istinto furbo e illiberale di Trump c’era stato, all’inizio, così come le porte sbattute, così come l’ambizione di riorganizzarsi attorno alla tradizione, pensando a quel presidente come a una parentesi (comunque fortunata: il potere è potere). L’inizio si è consumato in fretta e così, di sportellata in sportellata, con ogni genere di inchiesta in corso, dai soldi pagati alle donne per tacere alle ingerenze russe nelle elezioni fino all’impeachment che aveva già tragicamente dentro la sopravvivenza dell’Ucraina, il Partito repubblicano ha smesso di voler isolare quel corpo estraneo che si faceva minaccioso per tutti, soprattutto per la democrazia americana – di cui i conservatori sono fieri, la considerano eccezionale.

 

Quando Trump metteva a punto il suo piano cospiratorio inventando la “big lie” – la bugia era sua ma la attribuiva ai democratici – il Partito repubblicano si è sostanzialmente finto morto. C’è stato, certamente, chi ha detto che bisognava fermarlo, c’è stato chi ha detto che il sistema istituzionale americano è più forte di un presidente eversore, ma si è trattato di casi sporadici e ininfluenti, visto che nessuno è riuscito a convincere Trump che una menzogna di quella portata su scala nazionale era una minaccia alla tenuta dell’America. Si dirà: Trump non li ha ascoltati, la sua determinazione a sovvertire procedure e risultati era superiore a qualsiasi cosa, ed è vero, Trump non si voleva fermare e non si sarebbe fermato, ha lasciato che la folla fuori dal Campidoglio, il 6 gennaio del 2021, mettesse su una forca per il suo vice, Mike Pence, e anzi ne era contento. Ma neppure dopo, quando l’insurrezione si è consumata, quando i fuochi sono stati spenti, neppure dopo i repubblicani hanno voluto fare quel che andava fatto molto prima: isolare Trump, non lasciargli più spazio dentro al partito, correre il rischio che si facesse un altro partito per conto suo, il Maga, da combattere porta a porta, convincendo gli elettori che la sua proposta non è vantaggiosa oltre che legale. Il Partito repubblicano s’è rassegnato al potere eversore di Trump, ha guardato cinicamente i numeri e ha visto che quel consenso era  inossidabile, ha covato – cova ancora – la speranza che la giustizia potesse porre rimedio allo scempio che la politica non aveva saputo ricomporre, e così oggi, sette anni dopo la prima nomination, due anni e mezzo dopo l’assalto al Congresso, Trump è ancora l’unico candidato possibile, l’unica promessa per il 2024 di un intero partito. Si dirà: il problema non è lui né il suo partito, ma il consenso degli elettori, e anche questo è vero, ma alle elezioni di metà mandato gli elettori non hanno mandato un messaggio trumpiano, anzi, hanno castigato i più trumpiani dei candidati trumpiani, hanno ridimensionato il potere e l’influenza dell’ex presidente. E il Partito repubblicano ha conquistato la maggioranza al Congresso comunque, ha vinto quindi, ma ancora una volta non ha voluto prendere le distanze da Trump, lo ha fatto a parole ma non nei fatti, ha detto: ora sarà tutto diverso, e poi si è impantanato di nuovo lì, nel trumpismo che continua a mentire e a negare l’evidenza, assecondando in pubblico il vittimismo di Trump – che si sente l’oggetto di una pretestuosa caccia alle streghe pure se s’ammonticchiano prove su prove del suo operato illegale – e sperando intimamente che l’odiato Jack Smith con i suoi metodi perentori riesca a levare Trump dalla politica, perché loro, i politici, non ce l’hanno fatta, o non ci hanno nemmeno provato. 

 

Così ci ritroviamo a quindici mesi dalle prossime presidenziali a non aver fatto ancora i conti con quelle precedenti, con un candidato forte come Trump che potrebbe essere condannato durante le primarie ma anche in questo caso non è detto che si fermi, con un piccolo coro di repubblicani che dice: ritirati adesso e ti aiuteremo a non finire in galera, con la più grande democrazia d’occidente che è stata vittima di un tentato golpe, e che non sa come evitarne un altro. Russi, cinesi, gli autocrati di tutto il mondo guardano soddisfatti questo spettacolo americano e sono già pronti a rinfacciarlo la prossima volta che gli americani impartiranno lezioni di democrazia e anche se il confronto tra i loro sistemi e quello americano, quello occidentale, resta impietoso per loro, perché appunto il sistema democratico si è messo in moto per sanzionare l’eversore, avranno comunque la possibilità di dire: sistematevi gli affari vostri, prima di questionare sui nostri. Il Partito repubblicano avrebbe potuto evitarci anche questo, se dopo l’uscita di Trump dalla Casa Bianca avesse avuto a cuore il proprio futuro, assieme a quello dell’America. Ma non lo ha fatto, e ora si conterà e riconterà un’altra volta, e l’unità di misura sarà ancora Trump, e il prezzo della complicità sarà sempre più alto, per tutti.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi