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l'analisi

Così s'è deformato il gioiello progressista dell'affirmative action nell'America che non sta bene

Stefano Pistolini

Gli Stati Uniti si scrollano di dosso un alibi e mettono a nudo la loro volontà: quella di far emergere le contraddizioni della società americana a galla

C’è un nuovo messaggio che l’America manda in allegato alla notizia che la Corte suprema ha soppresso il già boccheggiante meccanismo di risarcimento sociale denominato affirmative action, introdotto da Jfk nel corso della sua presidenza, fortificato da Lyndon Johnson e consistente nell’introduzione di princìpi di valutazione differenziati per l’ammissione agli studi universitari, basati sull’appartenenza razziale a minoranze etniche svantaggiate – principalmente gli afroamericani – con l’intendimento di compensare secoli di sfruttamento e discriminazione.

 

Dunque un autoassolutorio e piuttosto sommario dispositivo di riequilibrio sociale che non liquidava il moloch dell’oppressione come peccato originale di quel sistema, ma metteva a disposizione di chi non aveva possibilità di accesso alternativo dei sentieri per la promozione della propria condizione formativa, sociale e dunque economica, disegnando prospettive di mobilità delle classi americane in connessione con l’appartenenza razziale. L’America progressista accolse inizialmente con l’entusiasmo di circostanza il provvedimento e il resto del mondo osservò la sua messa in atto col dovuto scetticismo, ma anche con l’ammirazione che va accordata a chi non si limita ad ammettere i propri errori ma cerca, sia pure con goffaggine, di porre rimedio al danno procurato. 

 

Già in quella fine Novecento si sapeva quanto l’istruzione, in particolare quella universitaria, fosse considerata in America un privilegio raggiungibile solo dietro lauto pagamento, mentre col passare degli anni l’economia del mondo accademico non avrebbe fatto altro che restringere il collo di bottiglia dei costi di questa opportunità: non si poteva dunque che applaudire al principio che apriva strade di accesso lungo le quali acquisissero valore dei dati “storici” dell’individuo, legati alle sue origini, alla sua appartenenza razziale, alla condizione nella quale la sua famiglia e la sua gente avevano trovato posto nella società americana – neri e ispanici in testa
Una sessantina d’anni più tardi, dopo che già diversi stati, tra cui California e Florida, avevano anticipato la decisione, la Corte suprema ha dichiarato incostituzionale i princìpi dell’affirmative action, provocando il coro di riprovazione dei leader dell’America progressista, a partire dai coniugi Obama e dallo stesso presidente Biden, ma di fatto aggiungendo un’altra tessera al mosaico dell’America trumpiana che non ha smesso di comporsi dal 2017, transitando per le severe prese di posizione contro il diritto all’aborto e facendosi forte della composizione ultraconservatrice dell’attuale Corte. Non che il significato dell’affirmative action fosse arrivato indenne fin qui: è più obiettivo dire che resisteva e per molti versi fungeva da valvola di sfogo e da meccanismo riequilibratore nei confronti della composizione sociale della nazione, pur essendo da tempo sotto attacco da tutti i punti di osservazione, a cominciare dalle organizzazioni di studenti conservatori, convinti che il meccanismo penalizzasse gli aspiranti bianchi e asiatici (“la nostra nazione non può rimediare alla discriminazione passata e alle preferenze razziali con nuove discriminazioni e diverse preferenze razziali”, sostiene Edward Blum, leader anti affirmative action), fino a un’ampia fascia di intellettuali neri, contrari allo stigma della corsia preferenziale e del relativo peso psicologico per gli studenti e i docenti che ne usufruivano. 

 

Era ancora ammissibile accettare quel segno d’inferiorità, pagare questo nuovo prezzo nella speranza di vedersi offrire le opportunità altrimenti fuori portata? E l’affirmative action, con la sua complessa normativa, non peccava di staticità a fronte d’una geografia sociale in continua mutazione? Era un effettivo meccanismo di inclusione, o un logoro strumento di assoluzione per un passato i cui influssi non smettevano di dilagare nel presente? Comunque la decisione della Corte suprema, così violenta da suonare inaccettabile ai boomer, ma accolta dai conservatori come un altro passo nel procedimento di restaurazione di una nazione che comunque non potrà mai più esistere, chiude la questione, aprendone ovviamente molte altre, dal momento che diseguaglianza ed equità sono ormai parametri essenziali nel misurare lo stato di salute di un paese preda di un’infezione ai gangli vitali del proprio sistema. 

 

L’affirmative action è stata una potente arma politica nella grande guerra culturale su ciò che rappresenta l’America, ponendosi come antidoto alla segregazione. Ma in effetti il concetto di élite è rimasto ben al centro dell’organizzazione nazionale e dei suoi presupposti psicologici. Oggi l’America con questa decisione si è scrollata di dosso un alibi e ha messo a nudo una volontà. Si potrebbe pensare che, in questa condizione di società fratturata, sia meglio così – allorché le sue lampanti contraddizioni verranno ancor più rapidamente a galla e le reti sociali non potranno fare a meno di assumere rilevanza nella denuncia di una situazione di allarmante, generale malessere.