La statua di Abraham Lincoln (LaPresse)

Negli Stati Uniti

La rimozione dell'affirmative action è un tentativo di tutelare i diritti individuali dal wokismo

Giuliano Ferrara

La Corte suprema americana ha rovesciato alcune precedenti sentenze che sostenevano la vigenza di una regola tesa a eliminare il predominio storico del ceto bianco e anglo-sassone. Una decisone che prova a ristabilire un ordine per evitare la minaccia dell'ideologia woke

Dopo decenni di battaglie sulla questione, la Corte suprema americana ha rovesciato alcune precedenti opinioni e sentenze che avevano sostenuto la vigenza della regola intesa a eliminare il predominio storico del ceto affluente o meritocratico bianco e anglo-sassone. La regola della “affirmative action”. Affirmative action vuol dire che, se sei parte di un gruppo di minoranza etnica o razziale, i regolamenti di ammissione e selezione nelle università e in altre istituzioni pubbliche e private favoriranno il tuo accesso. Lo scopo di questa “discriminazione positiva”, possiamo chiamarla così per semplificare, è assicurare la “diversità” come elemento costitutivo delle classi dirigenti, della leadership civile in una composita, multietnica e multirazziale società americana. L’obiettivo è tipico di una visione liberal, progressista, delle cose. La legge o la regola deve correggere il portato della realtà storica, e affermare diritti di gruppo contro percorsi individuali liberi da connotazioni razziali, specie in un paese infestato da pregiudizio e discriminazione, che su questioni come l’abolizione della schiavitù dei neri ha giocato il suo destino in una cruenta guerra civile di metà Ottocento, e poi ha convissuto con segregazione e discriminazione patenti per oltre un secolo, anche dopo che furono stabiliti eguali diritti civili per tutti. I conservatori, a parte i reazionari e gli estremisti impegnati in un diretto contrasto razziale o etnico che sfiora il suprematismo bianco, sostengono invece che si devono scegliere altri modi che non l’eguagliamento per legge attraverso la discriminazione identitaria allo scopo di tutelare secondo Costituzione eguali diritti per ciascun individuo, per ciascun cittadino, prescindendo del tutto dal colore della pelle o dall’etnicità. Questo per il conflitto nelle sue basi ideologiche o culturali, di guerra culturale. 

In termini politici la faccenda è altrettanto complicata, sfumata, e si presta a opinioni forti e anche a considerazioni ragionevoli. Prima di tutto è falso il pregiudizio secondo il quale una maggioranza conservatrice della Corte suprema, irrobustita dalle nomine decise sotto la presidenza di Donald Trump e ratificate dalla maggioranza del Senato, ha rovesciato per faziosità, come si è detto per l’aborto, precedenti pareri giuridici vincolanti che erano intoccabili. I giudici e le procedure di nomina sono un affare molto serio negli Stati Uniti, sono un pilastro di quella democrazia, della sua sostanziale fiducia nella funzione di poteri neutri e in essi della dialettica tra maggioranze e minoranze che riflettono il segno del suffragio universale e delle istituzioni rappresentative, dal presidente al Senato e al Congresso. Anche prima del rovesciamento della sentenza sull’aborto e di questa ultima decisione sull’affirmative action, sedici anni prima che Trump fosse eletto presidente e poi nominasse ben tre nuovi giudici di cultura conservatrice, la Corte fu ingiustamente accusata di parzialità per aver messo fine alla farsa del conteggio elettorale Bush vs Gore con una decisione a favore del candidato repubblicano, criticata ma rispettata senza isterismi anche dai soccombenti. 

Trump dunque c’entra poco. C’entra invece la trasformazione dell’affirmative action in wokismo, cioè in una ideologia radical e antiliberal che ha estremizzato la politica identitaria in nome di una fumosa e pericolosa teoria assoluta dei diritti delle minoranze. Tutto è stato rimesso in discussione: il gender, le basi contraddittorie ma costituzionalmente garantite della storia americana, il rispetto della vita umana nascente, la dignità della cultura e la libertà culturale dentro e fuori le università e la scuola (con i paradossi odiosi della cancel culture), l’ammissibilità sociale del profilo wasp (white anglo-saxon protestant), e sopra tutto l’idea jeffersoniana, con il suo sfondo religioso, di diritti eguali dati creaturalmente a ciascun individuo, e questi sì intoccabili. Il capitalismo democratico di origine puritana ha i suoi tremendi difetti, le sue formidabili controindicazioni nel governo di una società multietnica e multirazziale costruita anche sulla diversità e su una imperfetta ma costitutiva mobilità sociale, e tutta la storia americana è testimone di questa infinita complessità con le sue glorie e le sue ingiustizie. Le università e il sistema economico e industriale privato, che sono le colonne portanti del tempio in cui si forma una leadership con le caratteristiche mondiali che sappiamo, sono stati investiti da questa ondata radicalizzante che rischiava di travolgere i fondamenti costituzionali della convivenza democratica, e alla fine è nata nella Corte suprema una reazione che nasce dall’esigenza di una risposta argomentata e egualitaria, individualistica e liberale nel suo fondamento, alla pretesa di piegare realtà storia e Costituzione a una correzione normativa, forzata e astratta. E’ questo il senso dell’ultimo passaggio giuridico e politico di una lunga storia destinata a proseguire con nuove battaglie e guerre di cultura.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.