Edward Blum (Chip Somodevilla/Getty Images)

Guerra ad Harvard.

Così Edward Blum ha portato la battaglia contro l'affirmative action fino alla Corte Suprema

Stefano Pistolini 

L'attivista settantenne Edward Blum ha fatto della guerra all’affirmative action una professione: sostiene che il college stia penalizzando i candidati asiatico-americani in favore di bianchi, neri e ispanici. Ma Blum non è l’uomo del merito

L’affirmative action è lo strumento politico americano che promuove la partecipazione di persone con certe identità etniche, in contesti in cui sono minoritarie, allo scopo di risarcirle degli effetti di precedenti discriminazioni. Oggi l’azione affermativa è l’oggetto di un’intermittente guerra culturale: i progressisti spingono perché resti al suo posto, i conservatori ne mettono in dubbio l’efficacia, ne denunciano l’anacronismo e la bollano come meccanismo ostativo dell’unico parametro che dovrebbe governare l’assegnazione di opportunità: il merito. Qui entra in scena Edward Blum, settantenne attivista del Michigan assurto a celebrità nazionale, che della guerra all’affirmative action ha fatto una professione, sebbene non sia nemmeno un avvocato, bensì un agente di cambio. La narrativa che lo circonda è quella del cittadino solo e senza sponsor, che scende in campo contro le istituzioni e le loro ingiustizie, nel puro spirito dell’individualismo americano (il Jimmy Stewart de “La vita è una cosa meravigliosa” di Frank Capra – presente?). 

   
Le cose però non stanno così: le due organizzazioni no-profit di Blum, la Project on Fair Representation e la Students for Fair Admissions, per sostenere le proprie iniziative hanno ricevuto, tra il 2015 e il 2020, 11,2 milioni di dollari di sovvenzioni (Blum ha incassato 900 mila dollari) sotto forma di donazioni da importanti finanziatori conservatori come il Searle Freedom Trust, la Scaife Foundation e la Bradley Foundation, oltre a 3 milioni di dollari arrivati dal Donors Trust, noto come il “bancomat dark della destra”. Perciò, parlando di Blum, più che alla romantica idea del one man band, bisogna pensare all’efficiente portavoce di un movimento trasversale che punta a ottenere risultati dalla contingenza di una Corte suprema radicalmente conservatrice, ben disposta ad ascoltare cause come quelle da lui intentate. L’ultima delle quali, in questi giorni, punta a scardinare uno dei principi fondanti dell’affirmative action, ovvero quello che ispira le quote di ammissione a due prestigiose istituzioni accademiche americane come Harvard e l’Università del Nord Carolina. Nella sua presentazione alla Corte suprema, Blum sostiene che le politiche di azione affermativa dell’Università di Harvard equivalgano a un sistema di quote illegali, che negherebbe l’ammissione agli studenti asiatici-americani in modo commisurato alle loro qualifiche. “La maggioranza degli americani non vuole che la razza compaia in una domanda d’iscrizione al college”, scrive Blum. “Come non vuole che la polizia usi la razza come strumento di profilazione per prevenire la criminalità o i pubblici ministeri la utilizzino nella composizione di una giuria. La razza non va usata per aiutare o danneggiare gli sforzi di una vita”. Ora le decisioni della Corte suprema sulle argomentazioni contro Harvard e la Unc assumono vitale importanza, in quanto sfidano la costituzionalità dell’utilizzo della razza di uno studente come fattore di avviamento agli studi. Se la Corte suprema decidesse di vietarne l’uso, secondo Blum darebbe inizio a quello che lui chiama il “ripristino del patto costituzionale daltonico della nazione”, insensibile al colore della pelle e ai privilegi ad esso accordati.

   
Nel caso di Harvard, Blum sostiene che il college stia penalizzando i candidati asiatico-americani in favore di bianchi, neri e ispanici. A corredo della tesi presenta l’ipotetico caso di un maschio asiatico-americano con una probabilità di ammissione del 25 per cento: cambiando la razza di questo candidato in bianco, ne aumenterebbero le possibilità di ammissione al 36 per cento, in ispanico aumenterebbero al 77 per cento, in afroamericano al 95 per cento. Sebbene i candidati asiatico-americani ad Harvard si classifichino sopra gli altri gruppi per voti e punteggi dei test, i selezionatori attribuirebbero loro demeriti su parametri soggettivi della personalità, come la mancanza di leadership e la simpatia. E Blum ha ottenuto una vittoria significativa, quando un giudice federale ha imposto ad Harvard di rendere pubbliche le documentazioni di selezione dei nuovi studenti.

 

Ciononostante, per ora non sembra che gli studenti asiatici-americani stiano incolonnandosi per unirsi alla crociata di Blum. Che a questo punto va considerato come il beneficiario di una potente infrastruttura di finanziatori, intenzionati a smantellare l’azione affermativa. Il refrain del solista senza macchia è un espediente mediatico: in realtà gli alleati di Blum sono gli stessi attivi anche contro i diritti Lgbtq+, contro i sindacati e le regolamentazioni ambientali. E’ un vecchio adagio conservatore quello secondo il quale gli individui, e non le società, sono i soli responsabili dei propri successi. Di solito esposto in coppia con quello che la storia rappresenti solo un colossale fraintendimento collettivo. 

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