Da bambino ero turco. O almeno ero convinto di esserlo. A scuola tutte le mattine prima delle lezioni ci si riuniva in palestra a salutare sull’attenti la bandiera e a intonare in coro l’inno nazionale e il giuramento dello studente. “Sono turco. Sono giusto. Sono diligente. Proteggo i più deboli, rispetto i superiori. Amo il mio paese e la mia nazione più di me stesso”, dicevano le parole. Venivano scandite con enfasi, anzi urlate. Si fa ancora, in ogni ordine di scuola in Turchia. Io, a dirla tutta, un po’ imbrogliavo. Sono stonatissimo. Non ho mai saputo cantare. E non conoscevo tutte le parole. In casa non me le avevano insegnate. Rimediavo muovendo la bocca senza emettere suoni. I compagni di scuola mi chiedevano cos’ero, visto che non gli sembravo del tutto turco. Parlavo e pensavo in turco. Ma altre cose non quadravano, a cominciare da nome e cognome. A casa i miei parlavano della zia che viveva in Italia, quella che un giorno avremmo raggiunto a Milano. Rispondevo che ero italiano. Arrivai in Italia che non conoscevo una parola di italiano. Anche in Italia a scuola i compagni mi chiedevano cos’ero. Rispondevo che ero turco. E quelli di rimando, ma affettuosamente: Mamma li turchi! Avrei potuto dirgli che ero ebreo. Erano gli anni 50, non c’era xenofobia. Avevo passato i vent’anni quando divenni italiano. Non ne avevo il diritto, né per ius soli, né per ius sanguinis, né per ius scholae. Avrei dovuto fare il militare in Turchia. Ma non mi andava di servire in un esercito buono solo a fare colpi di stato, a reprimere minoranze, sinistra e dissenso, e in cui, al pari di ebrei, curdi e aleviti, non avrei potuto mai ambire ad altro che pulire i cessi. Mi fu concessa la cittadinanza italiana. A due condizioni: che comunicassi la cosa alle autorità turche e che rinunciassi alla protezione diplomatica italiana in Turchia. Saggezza pratica. Detto fatto. L’Ambasciata di Turchia mi comunicò che ero stato radiato dalla cittadinanza turca.
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