Oltre la delusione

 Così si alimenta la resistenza del popolo turco al potere di Erdogan

Paola Peduzzi

I turchi pro democratici non sono rassegnati. Il colpo al monolite erdoganiano  non va ignorato

Milano. L’affluenza alle elezioni turche è stata enorme, quasi il 90 per cento, Recep Tayyip Erdogan è costretto al  primo ballottaggio della sua carriera, il suo partito, l’Akp, ha la maggioranza in Parlamento ma con il risultato meno brillante della sua storia, i mercati registrano la delusione  rispetto alle attese – la vittoria di Kemal Kiliçdaroglu – e mostrano grande instabilità, cosa pericolosa per un paese economicamente fragile, e la società turca appare  vivace  e non rassegnata dopo un ventennio di costante repressione delle libertà. Erdogan conta di vincere il 28 maggio nello scontro diretto con il suo rivale, ma la Turchia non è più il monolite che è stato almeno negli ultimi dieci anni. 

 

Magra consolazione, si dirà, ma non è davvero così magra. La grande mobilitazione elettorale è stata certamente aiutata dal fatto che il governo ha potere semiassoluto sugli organi di informazione (la Turchia è considerata tra le più grandi prigioni di giornalisti del mondo) e dal richiamo fallace imposto da Erdogan durante la campagna elettorale: se non votate per me, votate per dei terroristi. Così come la pressione dei funzionari governativi si è sentita forte nei seggi in cui il risultato era a favore dell’alleanza di Kiliçdaroglu, con estenuanti riconteggi che davano sempre lo stesso esito. Il collasso del sito della Commissione elettorale nell’unica notte in cui avrebbe dovuto funzionare alla perfezione ha fatto temere il peggio: se non vuoi far sapere che cosa emerge dalle urne è perché devi fare di tutto per cambiarlo. Ma gli osservatori internazionali hanno dichiarato che il voto è stato sostanzialmente libero ed Erdogan, che da vent’anni ridisegna il sistema di potere turco facendolo assomigliare sempre più a un regime, ha accettato il fatto di non aver raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, ha allestito il suo gran discorso ad Ankara con la fretta di chi non vuole sbavature nella sua riconferma, ma poi si è adattato al fatto che la Turchia è oggi un paese diviso a metà.

 

Certo, quando questo presidente dice che il voto è stato “la festa della democrazia”, il brivido lungo la schiena si fa sentire: la parola democrazia pronunciata da lui ha il senso sinistro di chi ne ha bistrattato a tal punto il significato da deformarlo in quelle diciture ibride in cui l’unica cosa che conta è che “illiberale” è più forte di tutto il resto. Così stupisce che chi celebra la democrazia turca soltanto per sbeffeggiare i liberali che da tempo denunciano la deriva autoritaria non segnali che la piazza che celebra Erdogan lo fa gridando “Allah Akbar” e che la formula del presidente turco per tenere il potere è un misto di nazionalismo e di fervore religioso. Ma se la forza di una società si misura anche con il suo rifiuto dell’indifferenza, se la speranza di poter cambiare il regime si sostanzia in un risultato che assomiglia più a un pareggio che a un plebiscito, allora la società turca è vivace, e per nulla rassegnata. Questa era l’occasione perfetta con uno sfidante che era riuscito a unire l’opposizione, ma la delusione non deve togliere forza alla più grande crepa mai inferta a Erdogan in ventuno anni. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi