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Cosa dicono gli operai delle fabbriche che producono gli armamenti in Russia

Un altro dettaglio che rivela quanto Putin, il ministro della Difesa Shoigu e  il capo della Forze armate Gerasimov siano arrivati alla guerra senza  adattare  l'economia russa alle esigenze dell'esercito e con la  convinzione di conquistare Kyiv in pochi giorni 

Micol Flammini

Putin è arrivato alla guerra senza un piano per aumentare la produzione di armi. Farlo adesso, sanzioni a parte, è quasi impossibile, il sistema della Difesa è impreparato

Con due interviste consegnate alla stampa tedesca, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e il suo ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, hanno mandato lo stesso messaggio: l’Ucraina tornerà intera, possiamo farcela. Neppure Bakhmut è scontata per Mosca, i russi continuano a subire perdite significative nel tentativo di conquistare la città e le sue macerie. Il finanziatore della Wagner, Evgeni Prigozhin, ha ammesso che il numero di morti e feriti è alto e ha accusato la 72esima brigata di essere fuggita – potrebbe anche essere stata sconfitta dall’esercito ucraino. Prigozhin vede bene quanto la situazione a Bakhmut sia compromessa e nell’ultimo video ha fatto anche il conto dei veicoli militari distrutti. 

 

Mentre in Ucraina arrivano le armi promesse dagli alleati occidentali, la Russia ha problemi nell’accelerare la sua produzione. Lo spettacolo della Piazza Rossa sguarnita è la diretta conseguenza della guerra nonostante  Mosca abbia dimostrato di essere in grado di continuare la sua produzione. La sua industria bellica era dipendente dall’occidente, ma con l’aiuto di alcuni paesi terzi, come la Cina, è riuscita ad aggirare le sanzioni dell’Unione europea e degli Stati Uniti. I problemi delle fabbriche di armamenti in Russia sono più strutturali e profondi e la difficoltà nel produrre armi nei prossimi mesi potrebbe essere legata non soltanto alla mancanza dei materiali, ma anche a una questione di organizzazione del lavoro.  Dall’inizio della guerra, il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato di passare a un’economia di guerra, ha chiesto al ministero della Difesa di aumentare la produzione di armi e Dmitri Medvedev, ex presidente, ex premier, attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza e sostenitore tra i più accalorati della guerra contro Kyiv, ha promesso che la Russia quest’anno riuscirà a produrre 1.500 carri armati. La testata indipendente russa Verstka è riuscita a parlare con alcuni dipendenti delle fabbriche della Difesa, inclusi gli operai dell’impianto  di Nizhny Tagil, davanti al quale era andato anche il giornalista del Wall Street Journal, Evan Gershkovich, prima di essere arrestato con l’accusa di spionaggio.  La fabbrica si chiama Uralvagonzavod, è tra le più attive nel produrre mezzi militari da mandare in Ucraina, dalle sue rimesse escono i carri armati T-72, T-90 e T-19. Dall’inizio della guerra, la fabbrica ha iniziato a cercare nuovi dipendenti e ad aumentare i turni di lavoro, si lavora giorno a notte, con la promessa di stipendi da 100 mila rubli, circa 1.300 euro, al mese. La realtà è diversa, e come ha constatato Verstka, se gli stipendi sono stati aumentati per chi lavorava nella fabbrica da tempo, soprattutto per chi ha ruoli dirigenziali, poco o nulla è stato fatto per gli operai semplici. Inoltre, per ottenere uno stipendio di 100 mila rubli bisognerebbe lavorare quasi 24 ore su 24. Parte dello stipendio viene anche trattenuto sotto forma di contributi chiamati “volontari” per sostenere l’esercito e la Svo, acronimo russo per “operazione militare speciale”. Nel dicembre dello scorso anno, alcune testate della regione in cui si trova Nizhny Tagil, Sverdlovsk, hanno parlato di queste donazioni forzate e, secondo i loro calcoli, dall’Uralvagonzavod erano arrivati circa 60 milioni di rubli, più di settecentomila euro tolti agli stipendi. 

 

Gli operai della fabbrica Strela di Orenburg, che produce droni e missili antinave, hanno raccontato a Verstka che nonostante gli annunci da parte delle autorità sull’aumento della produzione, nei loro stabilimenti il ritmo di fabbrica è invece rimasto uguale a prima della guerra in Ucraina e non è aumentato neppure il numero degli ordini. Gli stipendi non crescono, le ore di lavoro sono rimaste uguali e alcuni impiegati hanno dato le dimissioni all’inizio dell’invasione.  Strela è anche l’impianto che più ha risentito della mancanza di alcune componenti, qui vengono utilizzati materiali più raffinati che servono per produrre droni o missili e che prima del 24 febbraio  2022 erano legati all’importazione occidentale. La dipendenza non è stata superata, ma il reportage di Verstka racconta un altro aspetto importante delle difficoltà di produzione russe: manca organizzazione e le richieste di Putin di mandare più armi all’esercito non è stata messa in pratica e a livello locale non si vigila sulle disposizioni del presidente. Il sistema clientelare che Putin ha alimentato durante il suo ventennio al potere ha sradicato il controllo capillare dei tempi dell’Unione sovietica. Pur volendo ricostituire un impero, il presidente russo ha smantellato molte delle strutture che ai tempi dell’Urss funzionavano. Per esempio, per l’Armata rossa c’erano dei piani di mobilitazione che riguardavano sia i soldati sia la produzione di armi, ora l’industria della Difesa fatica ad adeguarsi alla nuova situazione, alla guerra voluta dal Cremlino: per aumentare la produzione di armi, di fatto, Mosca non ha un piano. 

 

La penuria di uomini e di piani di produzione nelle fabbriche è un altro dettaglio che rivela quanto Putin, il ministro della Difesa Shoigu e  il capo della Forze armate Gerasimov siano arrivati alla guerra con poche informazioni, senza  adattare  l’economia russa alle esigenze dell’esercito e con la  convinzione di conquistare Kyiv in pochi giorni. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.