Il 9 maggio dai tre significati: per Putin, i dissidenti e von der Leyen a Kyiv

Gli oppositori dicono al presidente: hai rubato ai russi il giorno della vittoria

Micol Flammini

La festa della vittoria e quella dell'Europa sono le storie di due paesi al confine e raccontano tanto anche sul senso delle alleanze del Cremlino e dell'Ucraina. La parata a triplo schermo

Uno dei motti del Cremlino in occasione del 9 maggio, giornata in cui festeggia la vittoria dell’Unione sovietica contro la Germania nazista, è “possiamo farlo di nuovo”, stravolgendo il senso della festa che era nata per ricordare la fine dell’invasione dell’esercito di Hitler e non per minacciare l’invasione di uno stato vicino accusato, senza alcun fondamento, di avere un governo nazista. Il motto dell’opposizione russa che vive in esilio, o  che è stata imprigionata o che rimane in Russia convivendo con la paura della repressione, è invece “non succederà più”, in riferimento alla guerra, allo scontro tra potenze, ai crimini, alla sofferenza e alla morte che un conflitto porta con sé. Il motto che invece ieri la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen,  ha espresso a Kyiv è stato: renderemo “possibile l’impossibile”, un’Ucraina libera e pacifica nell’Unione europea. Se Vladimir Putin era nella Piazza Rossa per ricordare  la fine  della Grande guerra patriottica e l’inizio di un nuovo conflitto figlio di un patriottismo deformato, von der Leyen era a Kyiv per celebrare la festa dell’Europa, vicino al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Il confine tra Russia e Ucraina è sottile e pericoloso, ma ieri, quella linea tormentata divideva anche due storie e due universi. 

 

Vladimir Putin ha avuto il suo 9 maggio, nonostante i droni che la scorsa settimana sono stati abbattuti vicino al Cremlino, nonostante gli allarmi per la sicurezza, nonostante i risultati miseri nella guerra contro l’Ucraina e nonostante la penuria di mezzi militari, alla fine era presente soltanto un carro armato sulla Piazza Rossa, un T-34  prodotto a Kharkiv, in Ucraina, durante l’Unione sovietica. I veicoli militari sono impiegati in guerra e quelli che ancora devono essere mandati al fronte non vengono fatti   sfilare per paura di incidenti e rotture. Già lo scorso anno, per la parata il ministero della Difesa aveva preferito non utilizzare gli aerei, si disse che non li esponeva perché non ne aveva abbastanza, ma non li usò anche per non comprometterli. Putin ha preso la parola per dire che la vera guerra è contro la Russia, che le avvisaglie erano tutte nella russofobia dell’occidente, che oggi tiene in ostaggio l’Ucraina: “L’obiettivo del nemico è la distruzione del nostro paese”, ha detto. Il presidente ha ringraziato i soldati che combattono, quelli di professione e i mobilitati, e ha voluto dare il senso di una guerra esistenziale, per la sopravvivenza della Russia: è la propaganda del putinismo, minacciosa verso l’esterno, autocommiserativa verso l’interno. Se da dentro al Cremlino, più di un anno fa, il presidente russo dichiarava di voler “denazificare” e “liberare” l’Ucraina, oggi, sotto al Cremlino, dice di affidarsi ai suoi soldati che difendono la Russia, il futuro della nazione e anche quello del loro capo. Putin ha usato la parata anche per dare un messaggio di unità, per far vedere che Mosca non è sola, ed è riuscito a riunire quasi tutti i leader della Csi, la comunità degli stati indipendenti di cui fino al 2014 ha fatto parte anche l’Ucraina. Sugli spalti, a guardare la parata  c’erano anche il presidente kazaco Qassym Jomart Toqaev, e il premier armeno Nikol Pashinyan, tutti e due critici nei confronti di Putin dall’inizio dell’invasione. In passato hanno minacciato di stracciare trattati tra le loro nazioni, invece ieri erano lì, con le facce preoccupate, a prendere parte allo spettacolo secondo il copione stabilito dal Cremlino. L’alleanza non si è rotta, è tenuta insieme dalla paura e dalla difficoltà di rompere un ordine mondiale, che in realtà Putin ha già stracciato invadendo l’Ucraina. I segnali di frattura sono arrivati poco dopo, ma dal fronte, dove il finanziatore della Wagner, Evgeni Prigozhin, ha accusato il Cremlino di non mandargli munizioni e ha minacciato di nuovo di ritirarsi da Bakhmut, la vittoria che avrebbe dovuto offrire a Putin proprio per celebrare il 9 maggio.    

 

Ieri la festa dell’Europa si è celebrata a Kyiv, von der Leyen e Zelensky hanno tenuto un colloquio e anche due discorsi pubblici puntuali, lui più di lei. Hanno ragionato sul futuro dell’Ucraina, sull’adesione all’Ue che gli europei non vedono più come un tabù e gli ucraini intendono ormai come un dato di fatto. I due leader  hanno celebrato un’alleanza schietta, senza timori, e hanno menzionato quali sono gli ostacoli da superare, come l’arrivo delle munizioni per Kyiv e il blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina verso l’Europa, che Zelensky ha definito “inaccettabili”. La guerra che ieri Putin ha celebrato ha accelerato l’avvicinamento dell’Ucraina all’occidente, e quando Zelensky parla di futuro, parla diretto, descrive  a quale mondo vogliono appartenere gli ucraini – quello occidentale che secondo Putin lo terrebbe in ostaggio – e quello di cui invece  non vogliono mai più far parte: il mondo russo, il Russkij mir che davvero  ha tenuto a lungo l’Ucraina in ostaggio. 

 

“Ambizioni insensate, arroganza, impunità si trasformano inevitabilmente in tragedie. Questa è la ragione della catastrofe che ha colpito l’Ucraina”, sembra una frase che avrebbe potuto pronunciare Zelensky, che di tutto questo è stato vittima, invece l’ha detto ieri Putin sulla Piazza Rossa, ma non parlava di se stesso. Il 9 maggio  per colpa del Cremlino divide e non unisce, il presidente russo l’ha imbruttito negli anni, l’ha reso la festa non della fine di una guerra passata ma la minaccia di una guerra futura. Ieri chi si oppone a Putin, i russi che sono contrari all’invasione, contrari al Cremlino, contrari all’imperialismo putiniano, dicevano: Putin ha rubato alla Russia il 9 maggio. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.