Tutti i simboli dell'incoronazione

Marco Ubezio

La Corona di Sant’Edoardo, l'inno di Handel, le vesti cerimoniali e l’unzione del sovrano, celata agli occhi indiscreti delle telecamere

Alla vigilia dell’Incoronazione di Carlo III, il sito della BBC ha dato come notizia d’apertura la comunicazione dell’Oms in cui si dichiarava cessata l’emergenza mondiale del coronavirus. Curiosi intrecci di omonimie a parte, per una parabola che si chiude, un’altra raggiunge il momento in cui la forma diviene sostanza, perché il titolare dell’unica vera monarchia sopravvissuta al mondo deve, almeno, mostrare di credere davvero nella propria investitura divina.

    

Non è un caso che il momento topico della cerimonia tra le volte dell’Abbazia di Westminster, l’unzione del sovrano con il sacro crisma, è stata celata agli occhi indiscreti delle telecamere. E così la scena in cui l’Arcivescovo di Canterbury ha unto la testa, il petto e le mani di Re Carlo III, si è svolta dietro uno schermo di tessuto riccamente decorato con filo d’oro che riproduceva un grande albero dove le foglie altro non erano che i paesi del Commonwealth. Ed è stato questo il momento in cui il sovrano che, anche quale capo della Chiesa anglicana è tenuto a credere alla legittimazione divina della sua chiamata, ha ricevuto il mandato da Dio a governare il Regno Unito e gli altri suoi reami sparsi per i quattro angoli del mondo, perché l’Impero sarà anche defunto da decenni ma Carlo III è ancora sul trono di 15 paesi, dall’Australia alla Giamaica, anche se quest’ultima cova da tempo aspirazioni repubblicane.

  

La Corona di Sant’Edoardo sulla testa e gli altri simboli del potere reale (scettro, globo crucifero, anello e persino speroni) saranno anche carichi di diamanti e pietre preziosi ma sono, in fondo, solo simboli non rivestendo alcuna rilevanza sacrale mentre la solennità del momento dell’unzione è stata rimarcata, come avviene da tre secoli, dalle solenni note dell’inno di Handel che porta il nome di Zadok, il primo sommo sacerdote del Tempio di Salomone, ovvero colui che aveva unto l’omonimo sovrano d’Israele.

    

Curioso notare come Carlo III, che ha snellito il rito dell’Incoronazione abolendo, tra l’altro, l’antica usanza della lunga sequenza degli omaggi al nuovo sovrano da parte dei pari del Regno, prevedendo il giuramento di fedeltà da parte del solo principe di Galles, abbia invece voluto preservare intatti tutti i simboli ancestrali di questa cerimonia, praticamente intoccati da quasi mille anni. Recuperando anche le sontuose vesti cerimoniali appartenute ai suoi predecessori sul trono e seguendo la stessa linea di sua madre di impedire alle telecamere il rito dell’unzione. Scelta che appariva scontata negli anni ’50 ma che scontata non pare affatto oggi, in un’opinione pubblica assetata di simboli in cui cercare rifugio.

  

I maligni potranno pensare che l’eliminazione del giuramento dei pari del Regno abbia anche impedito un incontro troppo ravvicinato tra Re Carlo e il figlio riparato nelle Americhe che, nella qualità di duca di Sussex quel gesto avrebbe dovuto compiere. Ma si sa sono solo malelingue, immediatamente messe a tacere dalla decisione di inserire una sorta di giuramento collettivo della nazione, formula che hanno pronunciato tutti i presenti a Westminster ma che il programma della cerimonia inviata a ripetere in ogni angolo del Regno in cui ci fosse qualcuno disponibile a farlo.

 

E, infatti, quel giuramento popolare l’abbiamo sentito ripetuto dalle signore accampate con la tenda lungo il Mall che, anche nelle bandiere che portano sulle spalle con malcelato orgoglio, dimostrano che questo paese impoverito e insicuro a quei vecchi e polverosi riti crede ancora. Con la stessa pervicacia di chi non ha smesso di credere nelle favole.

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