editoriali
Il Corano che inguaia la Svezia
La sentenza della Corte suprema riscrive il confine fra libertà e odio. Ma più che con le provocazioni la società si rafforza col liberalismo
Cinque uomini sono stati arrestati ieri con l’accusa di terrorismo dall’agenzia di sicurezza interna svedese, Säpo. Il caso è correlato all’incendio di una copia del Corano avvenuto a Stoccolma, lo scorso gennaio. La radio pubblica svedese ha affermato che i sospettati avevano legami con il gruppo dello Stato islamico. Lo stesso giorno è arrivata una sentenza storica: la Corte suprema svedese ha ribaltato la decisione della polizia che aveva messo al bando i roghi del Corano come nel caso del danese Paludan. Ci sono considerazioni di libertà politica che esulano da quelle di ordine pubblico. La Turchia di Erdogan (che ha vincolato l’accesso della Svezia nella Nato al trattamento riservato al Corano) ieri ha protestato. Cosa vorrebbero i regimi islamici, che gli svedesi diano Paludan in pasto a chi vorrebbe bruciarlo vivo? La differenza fra le democrazie e le autocrazie è tutta qui: non esiste una legge contro la blasfemia che vieti in Svezia di bruciare un libro in piazza, qualunque esso sia, ed è anche la differenza fra noi e chi uccide i vignettisti di Charlie Hebdo, decapita il professor Samuel Paty o accoltella quasi a morte Salman Rushdie.
C’è anche un tema più generale su dove tracciare il confine fra libertà di parola e incitamento all’odio: se si può bruciare un Corano, perché non incitare all’antisemitismo? Come uscirne? Ristabilendo la forza di una società liberale, che la Svezia ha in qualche modo perso di vista dopo anni di autocensura. Il provocatore Paludan non troverebbe terreno fertile in una società che difende la libertà di parola, non ci sarebbe bisogno di roghi di testi sacri se non venisse messo in discussione il diritto, pagato a caro prezzo in Europa, di criticarli, di deriderli, di metterli in discussione. La società si rafforza col liberalismo, non con le provocazioni.
Isteria migratoria