Rahul Gandhi (AP Photo/Altaf Qadri) 

L'esecutivo indiano non vuole Rahul Gandhi, ma pure parte del suo partito è ostile

Francesca Marino 

Condannato per diffamazione, il capo del Congress Party è stato squalificato dal Parlamento e grida all’attentato alla democrazia. Ma nei circoli politici di Delhi si dice che a fargli lo sgambetto non sia stato il partito al governo

Delhi. “La mia religione si basa sulla verità e sulla non violenza. La verità è il mio dio, la non violenza il mezzo per arrivarci”. Così, citando il Mahatma Gandhi un po’ a sproposito, reagiva il capo del partito Congresso nazionale indiano, Rahul Gandhi, alla notizia della sua squalifica dal Parlamento. Invocando subito dopo, come da copione, la libertà di parola e di espressione e la censura che, a suo dire, ormai domina la scena politica indiana. Secondo Rahul, infatti, la sua squalifica sarebbe stata un tentativo maldestro di silenziare le sue critiche al governo e di togliere di mezzo il principale esponente dell’opposizione. La squalifica, prevista dalla legge indiana nel caso di condanne pari o superiori a due anni, arriva dopo la sua condanna in un processo per diffamazione: Rahul, durante la campagna elettorale del 2019, aveva difatti sostenuto che “tutti i ladri fanno Modi di cognome”. E si è rifiutato più di una volta di risolvere la questione bonariamente presentando le sue scuse a tutti coloro che, facendo Modi di cognome, si sono sentiti offesi. Condannato per diffamazione, adesso è fuori su cauzione e, assieme ai rappresentanti dell’opposizione, ha annunciato ieri di essersi è rivolto alla Corte suprema chiedendo l’annullamento del verdetto “ingiusto e politicamente motivato”. La condanna, se confermata, squalificherebbe automaticamente Gandhi da tutte le cariche pubbliche per otto anni e, quindi, anche dal candidarsi alle elezioni del 2024. 


Ma non è la prima volta che, in India come altrove, un parlamentare viene squalificato dal Parlamento a causa di una condanna penale. Solo che nessuno ha mai gridato, tanto meno dall’estero, all’attentato alla democrazia come sta invece succedendo nel caso di Rahul Gandhi: la narrativa, promossa dal Congress e ripresa in sede internazionale, è che si tratti dell’ennesimo tentativo da parte del governo Modi di togliere di mezzo e silenziare l’opposizione. Tentativo abbastanza maldestro, visto che la conferenza stampa promossa da Rahul Gandhi all’indomani della condanna è stata praticamente trasmessa a reti unificate, così come gli insulti rivolti in diretta dal suddetto Rahul a un giornalista che gli faceva domande sgradite e che, se la condanna ha avuto un effetto, è stato quello di compattare attorno a Gandhi i leader degli altri partiti di opposizione che nei suoi confronti sono sempre stati piuttosto critici. 

    
La verità che si sussurra nei circoli politici di Delhi è, in realtà, molto diversa. Si dice, difatti, che a tirare lo sgambetto al buon Rahul non sia stato affatto il partito al governo ma, al contrario, il suo stesso partito: stufo di avere un leader che, come si dice a Delhi, porta voti al Bharatiya Janata Party di Modi ogni volta che apre la bocca. In pratica, Rahul Gandhi alla guida del Congress sarebbe per Modi uno degli elementi chiave per ottenere la terza vittoria elettorale di fila. E i risultati ottenuti da Rahul parlano chiaro: criticando il governo, insultando i suoi esponenti, gridando all’attentato alla democrazia su ogni possibile piattaforma nazionale e internazionale è riuscito a ottenere risultati impensabili, come una sonora sconfitta, per esempio, negli stati del nord-est indiano: stati a maggioranza cristiana che, contro ogni logica e previsione, hanno votato compatti per i nazionalisti hindu. 

   
La squalifica di Rahul, invece, sarebbe una benedizione per il Congress per diversi motivi: soprattutto perché, da un Forrest Gump un po’ stralunato lo renderebbe un martire del pensiero libero, ma lascerebbe libera anche la presidenza del partito. Che potrebbe finalmente andare a Priyanka Gandhi, la sorella carismatica di Rahul, tenuta fino a questo momento a fare da supporter per il fratello. Per volontà di mamma Sonia, dicono, che da brava mamma italo-indiana preferisce spingere l’erede maschio. O, più probabilmente, perché Robert Vadra, il marito di Priyanka, costituisce un bagaglio troppo pesante: ritenuto corrotto, inaffidabile e soprattutto con ambizioni politiche proprie, sarebbe il tallone d’Achille della signora. 

  
Ci sarebbe spazio anche, si dice, per un outsider che finalmente spazzi via dai vertici del Congress la dinastia Gandhi-Nehru. Il problema vero non è lo stato della democrazia indiana, che è più viva e vegeta che mai come dimostrano polemiche e discussioni: il problema vero è trovare un leader di opposizione, uno qualunque, che capisca che le accuse di tipo ideologico funzionano soltanto con una ristrettissima minoranza di intellettuali colti e privilegiati. Il resto del paese bada ai risultati: le bombole a gas gratuite, i bagni costruiti nei villaggi, l’elettricità, lo sviluppo. Nonna Indira (Gandhi) distribuiva corredini per bambini in piedi su un camion, anche da primo ministro. Forse il Congress e i suoi alleati dovrebbero ripartire dalla base e, come diceva Rahul dalla verità: visto che la cabina elettorale, in India come altrove, non perdona nessuno, tantomeno i venditori di parole a buon mercato. 

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