Una donna cammina sotto una statua sovietica (Spencer Platt / Getty Images)

la testimonianza

L'ombra sovietica sulle perquisizioni alla sede di Memorial a Mosca

Giulia De Florio

Per l'ennesima volta in Russia il discorso storico si fa cronaca giudiziaria e i crimini del passato diventano attualità. Come nella persecuzione del regime di Putin verso l'associazione che ha vinto il Nobel per la Pace

Ci sono molte lenti da cui osservare quanto successo martedì 21 marzo a Mosca all’associazione Memorial. Ne scelgo una, non per forza l’unica o la più importante, ma quella di cui dispongo da osservatrice e compartecipe – benché a distanza – dei fatti. Partiamo da quelli, i fatti. Alle 6.00 del 21 marzo alla porta degli appartamenti di otto membri di Memorial hanno bussato le forze di sicurezza – agenti della polizia di Mosca e del Centro "E", il Centro di lotta all’estremismo. Occorre qui fare una prima digressione che accompagnerà tutta la vicenda: al centro della storia di Memorial c’è l’idea dell’eredità – in particolare del passato sovietico, da sempre parzialmente oscurato nel discorso ufficiale – e di come il suo lascito agisca nel presente. Nelle modalità in cui sono avvenute le perquisizioni c’è molto di quell’eredità: alla domanda un po’ perplessa dei nostri colleghi di Mosca "Chi è?" (leggi: a quest’ora), sono arrivate le più svariate risposte: "C’è un telegramma per Lei", "Posta", "Sono l’amministratore del condominio". Niente di nuovo, per chi aveva vissuto in Urss. Queste erano infatti le modalità con cui si svolgevano le "visite" dell’Nkvd o del Kgb. Ma l’eredità, per così dire procedurale, non si ferma qui.

 

Le perquisizioni sono avvenute due settimane dopo l’apertura del caso sulla cosiddetta "riabilitazione del nazismo", crimine di cui, secondo le autorità, si sarebbe macchiata Memorial, un’associazione che, ricordo, da trent’anni si impegna per la ricerca della verità storica e la difesa dei diritti umani. La cronologia, di nuovo, non è casuale: da un pezzo le autorità lasciano un tempo “canonico” per permettere a chi finisce nel loro mirino di attuare un piano B: scappare o tacere. Se il singolo non capisce o non accetta simili alternative non resta che procedere col copione: perquisizioni, arresti e così via. Ovviamente questo avveniva nel giorno della visita di Xi in Russia, quando la stampa nazionale e internazionale era impegnata a coprire l’evento e poteva riservare un’attenzione ridotta a qualche storico disubbidiente.

 

In mezzo a una guerra in corso che continua a mietere vittime e distruggere città, la storia resta dunque al centro dell’agenda del Cremlino. L’accusa di "riabilitazione del nazismo" esemplifica bene una questione ben più profonda e complessa di questo fantomatico capo d’accusa, ovvero l’impossibilità di un dibattito pubblico, democratico, scientifico in Russia sui crimini dello stato e, di contro, sull’evoluzione – in primis giuridica – che dovrebbe permettere di valutare eventi storici di grande portata, come le repressioni del periodo sovietico. Le autorità accusano l’associazione di aver incluso nel proprio database (che include circa 4 milioni di schede) i nomi di tre nazisti. La definizione di "nazista" appare già di per sé complicata, lo è ancora di più se consideriamo il modo in cui queste tre vittime sono finite negli elenchi di Memorial. Le prime due, Pëtr Dolženkov e Pëtr Dvojnych, figuravano nel quarto volume dei Libri della memoria della Repubblica del Tatarstan, pubblicato nel 2001 dagli storici di Memorial. Proprio quell’anno il procuratore di Kursk aveva stabilito che i due non potevano essere riabilitati a causa dei crimini da loro commessi. Tale informazione, contenuta in un verbale interno, non poteva però essere recuperata dagli autori del volume né tantomeno essi avevano avuto accesso al dossier relativo all’indagine. Gli storici di Memorial si chiedono da tempo perché a ottant’anni dal verdetto le informazioni in merito al loro caso non sono ancora di dominio pubblico né siano state raccolte in un unico archivio. Per ora non hanno ricevuto risposta. Così come non l’ha ricevuta una storica di Memorial che nel 2021 aveva richiesto al Fsb di poter visionare quei fascicoli.

 

Il terzo caso è ancora più interessante: Rudol’f Najmiller figura negli elenchi di Memorial come "deportato speciale", in quanto cittadino sovietico ma tedesco etnico che era stato trasferito nella regione di Archangel’sk durante le cosiddette "deportazioni etniche". Era poi stato incriminato per i crimini (molti) di cui si era macchiato durante l’occupazione nazista in Moldavia, ma nel Martirologio di Odessa e nel database di Memorial figurava in quanto vittima di deportazione forzata, non come criminale di guerra. Ciò che sottende la presenza di questo personaggio, che al tribunale della coscienza risponde senz’altro ad altre leggi e criteri, negli elenchi di Memorial è la volontà da parte dell’associazione di constatare e fissare con documenti la prassi punitiva – e altrettanto criminale – che lo stato sovietico adottava nei confronti degli individui, al di là del loro operato. Non solo. Si tratta di valutazioni giuridiche basate in larga misura sulla famosa "legge sulla riabilitazione", un testo fondamentale che ha permesso in buona sostanza l’avvio della ricerca sulla verità storica del passato sovietico, ma non per questo priva di smagliature, aporie, vuoti giuridici.

 

A distanza di 80 anni tutto questo dovrebbe quindi essere sì, al centro dell’agenda politica della Federazione Russa, ma non in quanto mera scusa per mettere a tacere voci non allineate all’ideologia ufficiale, ma come oggetto di discussione ragionata e condivisa su concetti di cui troppo spesso, e non solo in Russia, si fa uso improprio, quali "nazismo", "collaborazionismo" e persino "vittima". Percorrendo ancora il filo della continuità la vicenda di martedì non poteva che concludersi con l’apertura di un’indagine ai danni di un membro di Memorial: Oleg Orlov, co-presidente del Centro per i diritti umani “Memorial” è accusato di vilipendio reiterato dell’esercito della Federazione Russa. Secondo il mandato di comparizione il crimine è stata la pubblicazione di un post su Facebook del 14 novembre 2022 che rimanda a un articolo scritto da Orlov per una testata francese (e tradotto anche in italiano dalle volontarie di Memorial Italia) in cui l’autore parlava dell’aggressione russa contro l’Ucraina. In precedenza Orlov era già stato chiamato a rispondere due volte di reato amministrativo per manifestazioni contro la guerra. Alla terza infrazione c’è il passaggio al penale. Per l’ennesima volta il discorso storico si fa cronaca giudiziaria, i crimini del passato diventano attualità e l’accento si sposta sui diritti umani, sempre più arbitrariamente negati nella Russia del 2023.

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