a Mosca

L'occupazione russa. Disoccupazione ai minimi, c'è troppa scarsità di lavoratori

Luciano Capone

Disoccupati al livello più basso dal 1991, ma non è tutto oro. Tra emigrazione e mobilitazione, in Russia c'è sempre più carenza di manodopera. È un effetto negativo della guerra di Putin, che spinge in alto l'inflazione e in basso la produttività

La scorsa settimana, nella relazione alla Duma sullo stato dell’economia, il primo ministro Mikhail Mishustin ha gettato acqua sul fuoco sul buco di bilancio che si è aperto nel 2023: a marzo il disavanzo ha già superato l’obiettivo annuale (2 per cento del pil), con un deficit che ha raggiunto 3.300 miliardi di rubli a fronte di una previsione di 2.900 per tutto l’anno. Il governo, per ora, tiene sotto controllo i conti solo a parole, spiegando che il deficit rientrerà durante l’anno dato che molte spese sono state anticipate nei primi mesi.

 

I conti pubblici sono negativi, ma c’è un dato positivo che Mishustin ha potuto esporre ai parlamentari con un certo orgoglio: la disoccupazione è scesa al 3,7 per cento, il minimo storico per la Russia. Eppure il mercato del lavoro russo non scoppia di salute. Mishustin, astro nascente del regime putiniano proprio per la gestione della crisi economica, ha detto che gli interventi del governo sul lavoro hanno assorbito l’impatto delle sanzioni. E in effetti dalle statistiche di Rosstat, l’agenzia statistica russa, il tasso di disoccupazione in Russia è sceso al livello più basso dal 1991: 2,7 milioni di disoccupati (3,7 per cento) e 72,4 milioni di occupati.

 

Ma c’è un rovescio della medaglia, come ha evidenziato Alexandra Prokopenko, analista del sito russo di approfondimento The Bell: “Una carenza di manodopera senza precedenti”. Il prodotto avvelenato della guerra che ha operato attraverso due direttrici, da un lato la “mobilitazione” che ha mandato centinaia di migliaia di uomini al fronte; dall’altro l’emigrazione, che spinto fuori dal paese centinaia di migliaia di persone che non vedevano più un futuro in Russia. Così, secondo i calcoli della Banca centrale russa, un’azienda su due ha dovuto affrontare carenze di personale. La metà di queste aziende era già in difficoltà prima della guerra, ma poi il problema si è aggravato: il tasso di posti vacanti è così passato da 2,1 nel primo trimestre del 2022 a 2,5 nell’ultimo trimestre.

 

Naturalmente, le maggiori carenze di personale hanno colpito le industrie dove in genere è prevalente l’occupazione maschile come meccanica, metallurgia, edilizia e trasporti. Secondo alcune stime conservative due ondate migratorie – la prima dopo lo scoppio della guerra a febbraio e la seconda dopo l’annuncio della “mobilitazione parziale” a settembre – e la stessa mobilitazione hanno tolto dal mercato del lavoro circa 600 mila persone, pari a circa il 2 per cento di tutti gli uomini di età compresa tra 20 e 49 anni (in totale pari a circa 30 milioni). Lo choc al mercato del lavoro prodotto dalla guerra di Putin, oltre alla mobilitazione e all’emigrazione, ha operato attraverso una terza direttrice: lo spiazzamento dai settori civili a quelli militari.

 

Secondo i calcoli di Alexander Isakov di Bloomberg Economics, l’occupazione maschile nei settori della sicurezza militare e della pubblica amministrazione è aumentata di 390 mila unità nel 2022: dato che il numero totale di occupati è rimasto invariato (37 milioni), vuol dire che c’è stata un forte cambiamento della struttura dell’occupazione con un trasferimento da settori come il commercio, l’industria e le costruzioni alla difesa e alla sicurezza interna (che, non a caso, hanno ricevuto un enorme aumento della spesa pubblica con la guerra). C’è stata una qualche compensazione con l’aumento dell’occupazione femminile in settori tradizionalmente a prevalenza maschile, ma la scarsità di manodopera è sempre più forte. Anche perché molte posizioni non sono facilmente sostituibili.

 

Il passaggio all’industria militare di lavoratori occupati nei settori civili riduce il pil potenziale, così come l’emigrazione di tantissimi lavoratori specializzati: la fuga dalla Russia di capitale umano, di investitori esteri e le sanzioni sulle importazioni tecnologiche deprimono la crescita. Da un lato le imprese non riescono a sostituire il personale qualificato, dall’altro le persone specializzate che restano trovano facilmente lavoro ma si trovano a operare in un ambiente meno produttivo. Questo contesto, ovviamente, tende a spingere all’insù i salari. Ma anche questo, non è per forza una cosa positiva: da un lato perché i datori di lavoro competono per il personale aumentando i salari in maniera scorrelata dalla produttività (secondo l’Ocse, nei dieci anni prima dell’invasione la produttività del lavoro in Russia è diminuita dell’1 per cento annuo); dall’altro perché gli aumenti salariali spingono l’inflazione.

 

Di questo problema è consapevole la Banca centrale russa, che nei suoi bollettini avvisa: “Gli effetti pro-inflazione potrebbero essere più pronunciati rispetto allo scenario di base a causa di una riduzione della forza lavoro e di un cambiamento nella struttura occupazionale. Un’altra fonte di rischio potrebbe essere una crescita accelerata dei salari reali che supera la crescita della produttività”.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali