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L'ex presidente di Taiwan Ma Ying-jeou vola in Cina: vorrebbe una nuova stretta di mano con Xi Jinping

Stefano Pelaggi

Durante i suoi due mandati presidenziali gli analisti preannunciavano un percorso comune tra i due lati dello Stretto. Ma il mondo è cambiato. E la difesa dell’isola fa ormai parte dell’identità nazionale

Il viaggio dell’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou nella Repubblica popolare cinese avviene in un momento cruciale delle relazioni dello Stretto. Sull’isola de facto indipendente e rivendicata da Pechino a gennaio 2024 si terranno le elezioni generali, e nel frattempo Taiwan è diventata sempre di più il centro delle tensioni tra Cina e America. Quello di Ma è il primo viaggio in Cina di un ex presidente taiwanese. E’ stato lui il politico che ha avvicinato, almeno temporaneamente, i destini di Taiwan e della Cina. Durante i suoi due mandati presidenziali gli analisti preannunciavano un percorso comune tra i due lati dello Stretto, con una cornice giuridica simile alla formula di “un paese, due sistemi” allora in vigore a Hong Kong e Macao. 

 

Ma Ying-jeou, già sindaco della capitale Taipei per due mandati e ministro della Giustizia ad appena 43 anni, nel 2008 stravince le elezioni presidenziali, conquistando un’ampia maggioranza in Parlamento. Gli scandali che avevano segnato i due mandati del primo premier del Partito Progressista Democratico, Chen Sui-bian, il principale partito d’opposizione al Kuomintang guidato da Ma, furono cruciali per il risultato elettorale. Ma lo fu anche la volontà dei taiwanesi di iniziare a cercare un nuovo rapporto con Pechino giocò un ruolo nel processo decisionale. La Repubblica Popolare cinese del 2008 rappresentava per i taiwanesi, e per gran parte del mondo, un’incredibile opportunità di sviluppo. La vertiginosa crescita cinese nel settore tecnologico, e gli evidenti cambiamenti all’interno della società, avevano generato entusiasmo. La Cina era chiaramente un attore indispensabile nella filiera globale per tutti i paesi, e gli imprenditori taiwanesi  volevano sfruttare le profonde relazioni, sia culturali sia politiche, che esistevano tra i due lati dello Stretto. 

 

La storia personale di Ma è simile a quella di molti altri politici taiwanesi. Un percorso di eccellenza, dalla laurea a Harvard a una serie di lavori in prestigiosi studi legali e istituzioni americane. Dopo il ritorno a Taiwan, inizia a collaborare con il Kuomintang e diventa prima l’interprete poi il segretario personale di Chiang Ching-kuo, il figlio di Chiang Kai-shek. La sua carriera nel Partito nazionalista, com’è spesso definito il Kuomintang, è rapida: diventa ministro della Giustizia e poi presidente dello Yuan esecutivo, cioè il parlamento unicamerale di Taipei. Lascia la politica dopo una serie di contrasti con l’establishment del partito, perlopiù legati alla volontà di combattere la corruzione all’interno della formazione. Quando viene richiamato per contrastare l’ascesa del Partito Progressista Democratico, la scelta appare scontata sin dall’inizio: la sua è l’immagine del politico onesto, di un capace amministratore e soprattutto di un candidato vincente scollegato dal tradizionale establishment del Kuomintang. Il rapporto con la Repubblica Popolare cinese è sempre un tema centrale nelle campagne presidenziali a Taiwan, e l’approccio di Ma Ying-jeou appare chiaro sin dall’inizio. Promuove la sua strategia dei “tre no”: no alla riunificazione, no all’indipendenza, no all’uso della forza. E’ un modo per allacciare nuovi rapporti con Pechino e incentivare gli scambi commerciali tra le due sponde dello Stretto. I “tre no” di Ma sono una rivisitazione della formula già usata dalla Repubblica Popolare cinese che ambisce nel complesso obiettivo di rassicurare Pechino, Washington, la popolazione taiwanese e la comunità internazionale. Il primo no è diretto all’opinione pubblica taiwanese per mettere bene in chiaro la posizione sulla sovranità di Taiwan: “Nessuna trattativa per l’unificazione durante il mio mandato presidenziale”. Il secondo no chiude in maniera definitiva alle velleità indipendentistiche dell’isola. Il terzo no, infine – “nessun uso della forza da entrambe le parti dello stretto di Taiwan” – è un messaggio diretto a Pechino. 
Durante il suo mandato l’amministrazione di Ma definì le relazioni tra la Repubblica Popolare cinese e Taiwan come relazioni tra un attore statuale e uno non statuale, sostenendo il “consenso del 1992” senza risolvere il compromesso semantico sotteso all’accordo. Secondo quel consenso, entrambe le parti riconoscono di appartenere a un’unica entità statuale ma, sia Taipei sia Pechino rivendicano di rappresentare l’intero territorio cinese. Si tratta di una evidente concessione a Pechino, perché nell’eventualità di una unificazione il “consenso del 1992” avrebbe consentito una soluzione accettata dal diritto internazionale. I sostenitori dell’indipendenza taiwanese e i gruppi più ostili a Pechino interpretarono i due mandati di Ma come un percorso per favorire una lenta ma graduale accettazione dell’inevitabile unificazione con la Repubblica Popolare cinese. 

 

Secondo il politologo Lin Gang, l’obiettivo di Ma era quello di raggiungere una normalizzazione dei rapporti, incentivare gli scambi economici e prendere una decisione sul futuro delle relazioni tra Taipei e Pechino. Durante i suoi discorsi pubblici, Ma Ying-jeou evitò di riferirsi a Taiwan come “paese” o “nazione”, usando piuttosto termini come “membro della comunità internazionale” o “patria”. Secondo l’accademica di Harvard Shelley Rigger, il messaggio a Pechino era: “In caso di vittoria non aspettate che vi consegni Taiwan su un piatto d’argento”, tuttavia durante il suo mandato presidenziale si generò una forte dipendenza economica dalla Cina. 
In ogni caso, durante la presidenza Ma le cancellerie di tutto il mondo, Washington e Tokyo comprese, giudicavano molto positivamente la distensione tra Pechino e Taipei. L’economia cinese rappresentava un’imperdibile opportunità, mentre l’idea che lo sviluppo del paese avrebbe favorito una sorta di apertura democratica nella Repubblica popolare cinese era ancora una speranza per molti analisti. La Cina di oggi è il principale alleato della Russia di Vladimir Putin e ha lanciato una sfida revisionistica al modello di ordine mondiale a guida statunitense, ma soprattutto è un paese dove il primato della sicurezza e della politica sul business è palese. La formula “Un paese, Due sistemi” è inevitabilmente accostata alla svolta autoritaria a Hong Kong e alla brutale repressione delle proteste di piazza nell’ex colonia britannica. 

 

I destini di Taiwan e della Repubblica popolare cinesi si sono separati definitivamente anche a causa delle scelte di Ma Ying-jeou. La mattina del 18 marzo del 2014 alcune centinaia di manifestanti fecero irruzione nello Yuan legislativo per protestare contro la ratifica di un accordo commerciale che avrebbe permesso investimenti cinesi in territorio taiwanese. Si trattava dell’ultimo passaggio di un percorso che aveva reso Taiwan sempre più dipendente dalla Cina, una dinamica che aveva consentito all’economia taiwanese di superare le conseguenze della crisi dei subprime. I turisti cinesi riempivano le strade delle città dell’isola, le università taiwanesi compensavano il deficit di iscritti dovuto alla bassa natalità con le matricole provenienti dalla Cina, i voli diretti consentivano agli imprenditori taiwanesi di evitare dispendiosi scali per raggiungere la Repubblica popolare cinese e le delegazioni taiwanesi partecipavano – sempre come osservatori – alle riunioni delle agenzie dell’Onu grazie alla cosiddetta “diplomazia flessibile” di Ma. Tutto sembrava procedere verso una inevitabile cooperazione sempre più stretta tra Pechino e Taipei. 
L’occupazione del Parlamento di Taipei cambiò in maniera radicale la percezione delle relazioni con la Cina a Taiwan, i manifestanti da poche centinaia diventarono migliaia e riuscirono a influenzare l’intero paese. Era nato il Movimento dei Girasoli, che trovò il pieno sostegno della società civile taiwanese. Al termine dei 23 giorni di occupazione la difesa dello status quo e il rifiuto di qualsiasi cooperazione – economica o politica – con Pechino diventarono il requisito minimo per poter mantenere una base elettorale nel paese. 

 

Poco più di un anno dopo, il 7 novembre 2015, a Singapore avvenne un altro storico evento destinato a cambiare per sempre le relazioni sino-taiwanesi: lo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente di Taiwan Ma Ying-jeou. Seguendo un elaborato protocollo i due leader si rivolsero l’un l’altro usando l’onorifico xiansheng, l’equivalente in mandarino di Mister, nessuna bandiera nazionale sventolò mentre nei rispettivi discorsi Ma e Xi furono molto attenti al rispetto della complessa cornice semantica che regola le relazioni nello Stretto. Nell’incontro privato ciascun leader fu accompagnato da sette collaboratori: per la numerologia cinese il sette simboleggia unione e armonia ed è un buon auspicio per le nuove relazioni. L’evento generò grande attenzione nella stampa internazionale, e molti osservatori sottolinearono il ritorno a un processo di riconciliazione pacifica tra Taiwan e la Repubblica Popolare cinese. La stretta di mano, durata più di un minuto, tra Ma e Xi dall’esterno sembrò il momento della svolta, ma la risposta dell’opinione pubblica taiwanese fu opposta. E quell’incontro segnò il primo fallimento politico della leadership di Xi Jinping nelle relazioni con Taiwan, con la scelta di una passerella per un leader già ampiamente sfiduciato nell’isola, persino dal suo stesso partito. Pochi mesi dopo, la travolgente vittoria dell’astro nascente del Partito Progressista Democratico, Tsai Ing-wen, fu interpretata a Pechino come un oltraggio. 

 

Lo storico viaggio di Ma nella Repubblica popolare cinese, iniziato ieri e che andrà avanti fino a venerdì, è ufficialmente di natura privata ed è diretto, nelle parole dello stesso ex presidente, a incentivare gli scambi accademici tra i due paesi, con trenta studenti taiwanesi a seguito dell’ex premier, e a rendere onore alle tombe degli antenati. L’ex leader taiwanese verrà chiamato mister, e non ex presidente, come in occasione dell’incontro di Singapore. Con tutta probabilità incontrerà ufficiali di alto livello cinesi durante la sua visita, e si è parlato addirittura di un incontro con Wang Huning, considerato l’ideologo della Cina di Xi, che gestisce direttamente il dossier Taiwan e con Song Tao, direttore dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino. Una visita che ripropone, in maniera anacronistica, il modello del bilaterale di Singapore del 2015. Ma se nel 2015 gli attori internazionali guardavano con favore a una soluzione condivisibile per il futuro di Taiwan, la Cina del 2023 è profondamente diversa da quella di otto anni fa, e la volontà dei paesi occidentali e degli attori regionali rispetto alla difesa della sovranità taiwanese, soprattutto dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, non è mai stata così chiara.

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