C'eravamo tanto armati

La Svizzera distrugge missili inglesi invece che inviarli a Kyiv

Paola Peduzzi

La neutralità ostile di un paese che non utilizza le sue armi nell'Ucraina che si difende dall'aggressione russa e i carri che mancano all’appello

Milano. La nostra politica si basa “sull’impegno per la pace, sulla legge umanitaria, sulla mediazione ove possibile”, ha detto il presidente della Confederazione svizzera, Alain Berset, che ribadisce così la neutralità del suo paese e il fatto che “le armi svizzere non debbano essere utilizzate nelle guerre” (chissà a che cosa servono allora queste armi, se nemmeno si possono utilizzare nell’Ucraina che si difende dall’aggressione russa). Non le usa la Svizzera, ma non le possono usare nemmeno i paesi che hanno acquistato questi armamenti, come Germania, Spagna e Danimarca, che hanno fatto esplicita richiesta di inviare a Kyiv le armi di produzione svizzera presenti nei loro arsenali. Di più: Secondo l’Nzz am Sonntag, la Svizzera smantellerà 60 Rapier, un sistema missilistico di difesa terra-aria di produzione inglese, che pure sono funzionanti. 

 

“Una prima tranche di sistemi Rapier è stata smantellata, seguirà il resto”, ha fatto sapere il ministero della Difesa svizzero. Per quanto i Rapier non siano più un sistema d’avanguardia (sono stati creati negli anni Settanta, se ne parlò molto durante la guerra delle Falkland) e gli stessi britannici li abbiano smantellati (nel 2019), sono comunque funzionanti e sarebbero molto utili per difendere gli ucraini dagli attacchi russi. Oliver Diggelmann, professore di Diritto internazionale all’Università di Zurigo, ha fotografato  questo cortocircuito in una conversazione con il New York Times: “Essere uno stato neutrale che esporta armi è quel che ha portato la Svizzera in questa situazione. Vuole esportare armi per fare affari. Vuole esercitare il controllo su queste armi. E vuole anche essere il good guy. Ecco dove sta inciampando ora il nostro paese”. La neutralità su cui è fondata la Svizzera è una cosiddetta “neutralità armata”, che come ha detto un parlamentare svizzero “ha bisogno di soldati, di armi, di equipaggiamento, cioè di un’industria, altrimenti non serve a nulla”. Così, per fare un esempio, a oggi la compagnia svizzera Oerlikon-Bührle è l’unica produttrice di munizioni per i Gepard, i semoventi antiaerei tedeschi che sono arrivati a decine in Ucraina.

 

All’inizio dell’anno, c’era stata una proposta in Parlamento, accettata dalla maggioranza, che diceva: i paesi che condividono gli stessi valori democratici della Svizzera possono riesportare armi svizzere. Ma la scorsa settimana il Partito popolare svizzero, che ha la maggioranza relativa, ha rifiutato la legge, dicendo che si trattava di una decisione presa di fatto soltanto in relazione all’Ucraina, e quindi una violazione della neutralità, essendo l’Ucraina in guerra. Gli svizzeri sono molto affezionati alla loro neutralità (la variante “armata” viene spesso omessa), la sostengono compatti, ma così sostengono anche la difesa dell’Ucraina: il 4 marzo scorso, c’è stata una  manifestazione con una delle bandiere ucraine più grandi che si siano mai viste nelle piazze occidentali per chiedere al governo di non sospendere le sanzioni alla Russia e di lasciare che le armi comprate da altri paesi possano essere inviate in Ucraina. Come spesso accade, potrebbe esserci un referendum sulla questione, che un parlamentare conservatore, contrario alla riesportazione, ha spiegato così: “Si può essere mezze incinte? Puoi solo essere incinta o non esserlo. Così o siamo neutrali, e lo restiamo, o entriamo in un’alleanza di sicurezza”, come la Nato. “Quale delle due? Gli svizzeri devono decidersi”.

 

La decisione della Svizzera di smantellare i Rapier invece di rimandarli nel Regno Unito, che avrebbe  potuto disporne diversamente, ha riaperto il dibattito sulla neutralità, che mentre è in corso una guerra equivale più a un’equidistanza che grava sul paese aggredito, e anche sulla possibilità che i paesi che hanno nei loro arsenali armamenti di produzione straniera possano autonomamente decidere di inviarli all’Ucraina. Questo dibattito si era svolto a febbraio e riguardava la Germania, che infine, dopo molte pressioni e altrettante contorsioni interne, aveva dato il via libera per sé e per gli altri paesi di inviare gli attesissimi Leopard 2 in Ucraina. Qualche giorno fa Jeremy Cliffe, che si occupa di temi internazionali al magazine britannico New Statesman (e che vive a Berlino), aveva scritto: “I paesi che hanno spinto perché la Germania inviasse carri armati in Ucraina dovrebbero ora fare lo stesso”. Polonia, Portogallo e Regno Unito (che ha promesso i Challenger) stanno inviando i mezzi in Ucraina, ma danesi, olandesi, finlandesi e soprattutto francesi (che non mandano i loro Leclerc, che hanno contribuito con 0,7 miliardi di euro al sostegno dell’Ucraina, contro i 2,4 miliardi della Germania, e che sono stati molto critici con Berlino) continuano a prendere tempo. L’European Council on Foreign Relations ha pubblicato un paper in cui dice: “Se fallisse lo sforzo collettivo di mobilitare 62 Leopard 2 per l’Ucraina, questa sarebbe una dichiarazione di bancarotta strategica, niente di meno”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi