l'eredità di bibi

L'accordo tra Iran e Arabia Saudita rafforza le priorità di Israele

Micol Flammini

Ora a Gerusalemme serve un compromesso sulla Giustizia per non mostrarsi debole e frammentata. La notizia del patto mediato da Pechino e la visita di Bibi in Italia 

Per Benjamin Netanyahu arrivare a Roma non è stato semplice, tra i piloti che si sono rifiutati di accompagnarlo e la traduttrice che si è rifiutata di tradurlo. E una volta arrivato nella capitale, il suo colloquio con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha coinciso con una notizia che dirotta parte della strategia di Israele in medio oriente: Iran e Arabia Saudita hanno svelato un accordo, mediato dalla Cina, per la riaperture delle relazioni diplomatiche. Mentre in  Italia il premier ha   parlato di un vertice interministeriale che si terrà tra tre mesi  in Israele, di collaborazione nella lotta contro la siccità, di gas –  non è stato annunciato nessun cambiamento sul riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, nonostante l’apertura di Matteo Salvini  –   la visita cordiale è scivolata sullo sfondo dei tre temi che preoccupano Israele: le proteste contro la riforma della Giustizia, la  sicurezza interna e la consapevolezza che sono settimane di disordine, di una fragilità che lo stato ebraico non può permettersi. 

 

L’annuncio dell’accordo dei sauditi con gli iraniani si somma all’instabilità, all’immagine di un paese che in questo momento viene percepito come debole e di un premier come Netanyahu ormai distratto, apprezzato un tempo per  aver raggiunto in passato i traguardi opposti: stabilità, sicurezza, crescita. “Il premier sta disfacendo la sua eredità, ed è un’autodistruzione – ha detto al Foglio lo storico Gil Troy, opinionista del Jerusalem Post – tra i suoi successi, settimane fa, avrei elencato quelli economici, la costruzione della start-up nation, gli Accordi di Abramo e la strategia con l’Iran”. L’idea di costruire una coalizione anti Teheran non poteva prescindere dal coinvolgimento dell’Arabia Saudita, con la quale, seppur in via non ufficiale, Gerusalemme ha provato a implementare i rapporti. Ora l’idea di stringere relazioni formali con Riad partendo dal comune timore di un Iran in grado di diventare una minaccia nucleare si complica e anche la potenza degli Accordi di Abramo, grazie ai quali Israele aveva normalizzato i rapporti diplomatici con alcuni paesi mediorientali, inizia a sfumare. Restano la rilevanza, l’impatto storico, ma si indebolisce   il piano di Netanyahu di isolare Teheran per garantire al suo paese la sicurezza. “Più debole si mostra Israele, più debole è. In politica e in diplomazia la percezione conta moltissimo. L’accordo tra sauditi e iraniani dovrebbe essere la sveglia per tutti: premier, governo, opposizione, cittadini”, dice Troy. La frammentarietà letale per Gerusalemme si unisce anche ai rapporti incrinati con l’Amministrazione americana, che non approva la riforma della Giustizia proposta da Netanyahu, ma che in questi mesi non è mai riuscita a portare l’Arabia Saudita dalla sua parte: in estate il presidente Joe Biden era andato a Riad per chiedere di aumentare la produzione di petrolio per contrastare l’aumento dei prezzi in funzione antirussa e non ha ottenuto nulla, ora Washington si trova spettatore di un accordo con Teheran agevolato da Pechino. Il portavoce del Consiglio di sicurezza, John Kirby, ha detto che l’America sostiene “qualsiasi sforzo per ridurre le tensioni nella regione”, ma questo accordo esula dai disegni immaginati sia dagli Stati Uniti sia, soprattutto, da Israele. 

 

Gerusalemme esce da anni di stress politico, le cinque elezioni in tre anni e mezzo hanno portato la società a continui confronti e sempre, al centro del dibattito, c’è stata la figura di Netanyahu. Tra le proteste, le tensioni, l’insicurezza – giovedì c’è stato un altro attentato a Tel Aviv – la via che ora dovrebbe seguire il  premier per rimettere il paese sul cammino giusto è quella del compromesso, che passa prima di tutto dalla riforma della Giustizia. Secondo Troy le premesse ci sono e non vanno ignorate: “C’è il presidente Isaac Herzog che sembra disposto a uscire dal suo ruolo simbolico per facilitare una mediazione, ci sono i sondaggi che dicono che oltre il sessanta per cento della popolazione è contrario e il governo non può continuare a non ascoltarli, infine c’è un panorama politico dentro alla Knesset, il Parlamento israeliano, che indica che il dialogo non è impossibile. Per ora sono due gli esponenti del Likud, il partito del premier, che hanno detto che bisogna fermarsi e ragionare e due gli esponenti dell’opposizione che hanno risposto in modo favorevole: parliamone”. Il compromesso serve a ricucire i rapporti, a rimettere l’attenzione di Israele sulle questioni che contano – sicurezza, economia, relazioni internazionali – e dal compromesso passa anche la ricostruzione dell’eredità di Netanyahu. 
 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.