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il foglio del lunedì

Dopo un anno di guerra la democrazia non è disarmata

Paola Peduzzi

Dodici mesi a parlare a sproposito di pace mentre sotto i nostri occhi gli ucraini costruivano l’antidoto più potente al sadismo del regime di Putin. Chiacchiere, pensieri e oggetti che hanno composto la nostra sopravvivenza. Un dialogo appassionato, partendo da Anne Applebaum

Il taccuino di Erika Kinetz è piccolo con le pagine bianche piene di disegni semplici: una strada, un bivio, dei puntini. Sono le piccole mappe dell’orrore russo per le strade di Bucha, Irpin, Chernihiv: i puntini sono i cadaveri ritrovati, uno due, tre corpi qui, altri corpi là – “otto in tutto”, in pochi metri –  di fianco ci sono i quadratini che indicano i palazzi distrutti. Erika Kinetz è una giornalista dell’Associated Press, è arrivata in Ucraina poco dopo l’invasione della Russia, il 24 febbraio 2022, per raccontare la guerra e si è ritrovata a documentare un massacro di esseri umani che il ministro degli Esteri ucraino, Dmitro Kuleba, sintetizza così: “Può succedere di tutto, puoi essere ucciso, stuprato, torturato, tagliato a pezzi, tutto”. 

Il lavoro della Kinetz e di altri suoi colleghi è diventato un documentario prodotto assieme alla Pbs, “Putin’s attack on Ukraine”, che è stato pubblicato alla fine dell’ottobre scorso: ripercorrendo i primi mesi dell’aggressione russa, puntino per puntino, quadratino per quadratino, ogni storia riemerge dalla memoria – è passato quasi un anno e sembra un secolo di violenza. Di questo film – ce ne sono altri e ne stanno uscendo di nuovi per l’anniversario – colpiscono tre cose: gli occhi increduli dei sopravvissuti; gli “oh God” che sfuggono alla Kinetz anche dopo che ha preso quaderni di appunti, dopo che ha fatto cento disegni con i puntini e i quadrati, e i testimoni ne hanno aggiunti altri a mano, dopo che ha visto e rivisto che i soldati di Vladimir Putin hanno commesso e commettono crimini di guerra; le enormità che sono successe dopo, a documentario concluso: tanto orrore è soltanto una parte, l’inizio. 

“Oh God” è il ritornello necessario per raccontare questo primo anno di guerra: non ci abitua alla violenza. Le immagini non si assomigliano l’una all’altra, ogni maceria conta, ogni cadavere conta, se ogni esplosione è uguale a quella dopo, se passa l’idea perversa che tutte le guerre sono brutte, si soffre e si muore, allora si banalizza anche la difesa dall’attacco: questa è una guerra ingiustificata in cui un popolo di cittadini normali ha dovuto, da un giorno all’altro, inventarsi soldato. 

E’ essenziale riconoscere gli oggetti della quotidianità sventrata dagli attacchi di Putin: le stanze divelte con le lenzuola ancora sui letti, la cucina tranciata e sospesa in cima a un condominio colpito da una bomba, le mele nel cestino in mezzo al tavolo, i portachiavi, le biciclette, i sacchetti della spesa, le mutande rubate dai soldati russi per spedirle alle loro fidanzate a casa, le lavatrici e i frigoriferi portati via, alcuni consegnati perché possono servire alla macchina della guerra russa altri inviati alle famiglie, le scarpe, i televisori, le scatolette di cibo, le tende, i pneumatici  infilati in sacchi grigiastri che sono stati ritrovati nelle città russe vicine al confine ucraino – bottini di guerra che sanno di miseria e di disperazione. E poi i corpi, centinaia di corpi lasciati sulle vie dell’aggressione di Putin – le vie di ingresso, le vie di fuga, in questa continua e falsa “riorganizzazione” che la propaganda di Putin ci rifila  per disorientarci – corpi russi, corpi ucraini, mani legate, cappucci in testa, vestiti sformati, bruciature, mutilazioni, mine ovunque perché nemmeno il ritrovamento e il lutto  possano essere momenti di dolorosa calma. 

Gli oggetti, le cose, i corpi e la  memoria si intrecciano sotto i nostri occhi, mentre una catastrofe umanitaria s’è abbattuta su un intero paese – un paese grande due volte l’Italia tutto sotto attacco da un anno, tutti i giorni – per la volontà imperialista e genocidiaria della leadership di Mosca. “L’Ucraina conta come simbolo del perduto impero sovietico”, dice Anne Applebaum, scrittrice che da almeno vent’anni, dal suo seminale “Gulag” pubblicato nel 2003, ci costringe ad andare a vedere da vicino quel che preferiremmo ignorare. 

“L’Ucraina era la seconda Repubblica sovietica più popolosa, la seconda più ricca e quella con i più profondi legami culturali con la Russia. Ma la moderna Ucraina post sovietica ha lottato per unirsi davvero al mondo delle democrazie occidentali. L’Ucraina ha organizzato non una, ma due rivoluzioni per la democrazia, contro l’oligarchia e  contro la corruzione  negli ultimi due decenni. Putin vuole che i democratici ucraini falliscano perché vuole che i democratici russi falliscano. La distruzione dell’Ucraina è legata, nella  mente del presidente russo, alla sua sopravvivenza politica come autocrate illegittimo”. Applebaum dice che Putin ha attaccato l’Ucraina non soltanto in nome della sua ideologia sovietico-imperialista secondo cui quella terra, quel popolo, appartiene alla Russia – in questo sta il disprezzo letale del presidente russo per l’umanità, che considera una massa informe e quindi sacrificabile da possedere, in quanto non ha desideri, volontà, aspirazioni – ma perché l’Ucraina voleva buttarsi verso ovest, assaporare un modo di vivere fondato sulla libertà, con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutte le sue certezze. Se quel processo fosse cominciato e andato a buon fine, “se l’Ucraina fosse stata nella Nato, Putin non l’avrebbe invasa”, dice Applebaum, stracciando fulminea mezzo dibattito occidentale di aera filorussa: “Una delle rimostranze di Putin è che l’espansione verso est della Nato non abbia tenuto conto degli interessi di sicurezza della Russia. L’espansione della Nato ha creato una zona di sicurezza intorno ai 60 milioni di abitanti dell’Europa centrale, consentendo trent’anni di crescita, investimenti e sviluppo. Il risultato è stato il benessere, compreso quello tedesco. Dal 1991, quest’Alleanza non ha mai assunto una forma aggressiva: la Nato non ha piani per invadere la Russia né li ha mai avuti. Anzi, a un certo punto gli Stati Uniti hanno ritirato i loro carri armati dall’Europa e hanno iniziato a chiudere le basi militari, né c’erano mai state esercitazioni della Nato in Polonia fino alla prima invasione russa dell’Ucraina, nel 2014. Putin naturalmente queste cose le sa, ma ha trovato utile, ai  fini della propria politica interna, trasformare la Nato in un nemico. Nel momento in cui ha perso un po’ di sostegno e il paese ha cominciato a ristagnare, il presidente russo ha cercato una compensazione, ripristinando l’impero russo all’estero”. 

Il dibattito sulla guerra si è sviluppato su due piani, uno pratico e militare – gli obiettivi colpiti, la terra persa e riconquistata, le armi necessarie per contrastare l’avanzata russa – e l’altro ideale, lo scontro tra democrazie e autocrazie. Non sono due piani distinti: distinguerli anzi li svilisce entrambi perché il significato di questa aggressione, e quindi della difesa, sta nella brutalità contro le persone che diventa sovvertimento di un sistema che ha le persone al suo centro, la democrazia appunto. Nel catalogo delle cose della quotidianità distrutte e saccheggiate dai soldati russi, nei tostapane rubati, nei libri scolastici divelti, nei giocattoli mezzi bruciati (che con i loro colori sono così riconoscibili nello strazio grigio delle macerie), negli appartamenti distrutti e nelle auto carbonizzate sta la corsa degli ucraini verso ovest e sta la determinazione russa di ostacolare, reprimere, uccidere la voglia di vivere meglio, di permettersi un lusso un più, di compilare iscrizioni all’università in grandi città per i propri figli, di emanciparsi da uno stile di vita, quello russo, che è fatto di miseria e di povertà: la democrazia di qui, l’autoritarismo di là. Putin è brutale e soffoca tutto ciò che gli sembra pericoloso per la propria tenuta, considera il sacrificio umano come parte integrante della sua strategia di conquista, ma ha anche costruito un paese che ha un reddito pro capite pari a quello della Bulgaria (che è tra i paesi più poveri dell’Unione europea), un pil nazionale pari a quello della Spagna (pur avendo tre volte i suoi abitanti e  trentatré volte la sua superficie), con un livello di diseguaglianza tra ricchi e poveri da far impallidire i nostri cantori dei danni del capitalismo, del liberalismo, della globalizzazione. 

Senza andare a vedere come va il rispetto dei diritti delle persone in Russia (malissimo, lo sappiamo), basterebbero questi pochi elementi per capire che il sistema autocratico è un sistema fallito e che il sistema ucraino, in transizione e con tutti gli acciacchi che ne vengono, era e sarà destinato a maggiore successo (faremmo anche bene a ricordarci, puntualizza la Applebaum, che “al momento Putin ha abbastanza soldi dai proventi di gas e petrolio da sostenere il suo esercito: concentriamoci su questo”). Il nichilismo feroce di Putin si ritrova nella smania dei suoi soldati di portare a casa alla mamma una camicia da notte con i fiorellini, nel fatto che questi soldati sono disposti a sparare come cecchini a persone in bicicletta per portarsi via ciò che avevano nel sacchetto della spesa: quel che non si può avere si ruba, si saccheggia e si distrugge, che sia un frullatore o l’intollerabile successo dell’Ucraina. 

Lo abbiamo visto in modo nitido nella seconda parte di quest’anno di guerra, nel violentissimo inverno, quando la strategia russa  si è concentrata sugli attacchi aerei indiscriminati. “Oh God”: è necessario non ridursi a pensare che una rete elettrica colpita dai russi vale un’altra, che un palazzo schiantato da un missile russo è uguale a mille altri palazzi schiantati prima e dopo, che una bomba russa caduta su un trattore sia meno grave di una bomba russa su un passeggino. L’obiettivo finale è preciso e a suo modo chirurgico:  rendere l’Ucraina invivibile, far passare agli ucraini la voglia di viverci e di vivere, quindi costringerli ad arrendersi. “Putin non ha rinunciato affatto al suo obiettivo originario – dice Applebaum – Vuole arrivare a Kyiv, conquistare il paese”. Vale tutto, come per le torture, gli stupri, le esecuzioni: Mariupol, la città martire che rappresenta una delle poche ma grandi conquiste di Putin, è qui a dimostrarlo. La città è stata bombardata, svuotata, assediata, affamata, infine piegata e ora utilizzata come poster della “liberazione” russa, con i filmati di una finta ricostruzione: Mariupol ci ricorda ogni giorno, con il silenzio di una terra che restituisce cadaveri mai identificati, che cosa accadrà al resto dell’Ucraina se dovesse smettere di difendersi da un attacco che Putin potrebbe fermare in qualsiasi momento, ma non lo fa. 

“C’è soltanto un modo in cui questa guerra può finire – dice Applebaum – e con ‘finire’ intendo finire per sempre, non soltanto per pochi mesi: il regime russo deve capire che l’invasione è stata un errore. Proprio come gli inglesi in Irlanda all’inizio del XX secolo o i francesi in Algeria, il Cremlino deve arrivare alla conclusione che l’espansione imperiale è disastrosa, non soltanto per gli ucraini e i loro vicini, ma pure per sé stesso. Qualsiasi altra soluzione, un cessate il fuoco temporaneo, o un accordo per la cessione di territori, comporta il rischio che la guerra continui o riprenda in seguito, che i russi aspettino qualche mese o qualche anno e poi ricomincino l’invasione. E, naturalmente, il governo russo continuerà ad arrestare e uccidere ucraini nei territori occupati, la resistenza andrà avanti in quei territori, e la gente continuerà a morire”.
Se si sottrae dall’equazione della guerra il suo costo umano, non si comprende più perché questa è una battaglia esistenziale – la sopravvivenza quotidiana, e poi la sopravvivenza di un modello o di un sistema. 

Non si capisce nemmeno, se non si considerano i costi umani e la devastazione di ogni giorno, perché la cessione di territori ucraini alla Russia, o un cessate il fuoco che Mosca (non) rispetterebbe a suo piacimento non sono un negoziato: sono un varco lasciato aperto alla volontà russa di conquistare e piegare l’Ucraina. “Non sarà possibile negoziare un accordo di pace finché i russi non capiranno che la guerra è stata un errore e ritireranno le loro truppe”, dice Applebaum, ricostruendo poi come siamo arrivati fin qui, non perché l’occidente e la Nato erano troppo aggressivi e accerchiavano la Russia, ma perché erano troppo deboli (questa studiosa è maestra di ribaltamenti di prospettiva fulminei): “Si dice che l’occidente non era abbastanza attento a Mosca, ma è vero il contrario: abbiamo prestato alla Russia miliardi di dollari, abbiamo investito in Russia, abbiamo offerto alla Russia un rapporto speciale con la Nato e più in generale con il mondo occidentale. Abbiamo tollerato la corruzione russa all’interno dei nostri confini e abbiamo ignorato le ingerenze  russe nei nostri sistemi politici, anche quando hanno contribuito a creare movimenti dirompenti. Vi pare disattenzione questa? Ma la Russia voleva da noi qualcosa che non potevamo darle: lo status di un impero, e il dominio su tutti gli ex stati dell’Unione sovietica. Di certo Putin ha avuto l’impressione, sia da Barack Obama sia da Donald Trump che gli Stati Uniti non si curassero più di tanto dell’Ucraina; così come ha avuto anche l’impressione da parte di Angela Merkel che le relazioni economiche della Germania con la Russia fossero molto più importanti dell’Ucraina. Il sostanziale rifiuto occidentale di armare l’Ucraina ha portato Putin a credere che avrebbe potuto invadere senza incontrare alcuna resistenza. Quindi sì, è stata la nostra debolezza a provocarlo, non la nostra forza”. 

Forza e debolezza hanno scandito il dibattito sulla guerra, mescolando le vittorie sul campo, la diplomazia, le minacce soprattutto, perché se chi vuole imporre la legge della forza evoca anche la minaccia nucleare, il campo di battaglia s’allarga e allo stesso tempo si confonde. Applebaum dice che l’utilizzo delle armi nucleari da parte di Putin è una possibilità, ma è “improbabile: infrangerebbe un tabù durato quasi ottant’anni, e perderebbe istantaneamente qualsiasi alleanza abbia nel resto del mondo. Per la maggior parte del tempo i russi parlano di armi nucleari per scoraggiarci”. Poi scatta questa fotografia panoramica: “L’attuale leadership europea è unita, ma ci sono fazioni filorusse all’interno di ogni paese che sono ben finanziate, sostenute e assistite da troll russi. La lotta contro la Russia non è solo fisica: è anche ideologica, che ci piaccia o no. Respingere la tentazione dell’illiberalismo e dell’autoritarismo è il principale compito che la politica internazionale avrà in questo decennio: le autocrazie continuano a lavorare insieme. L’Iran ha dato droni alla Russia. La Cina sostiene la Russia all’Onu e altrove. Se la Russia vincerà questa guerra, allora la cooperazione accelererà e la Russia diventerà una specie di motore per altri autocrati, contribuendo a mantenerli al potere”.  Poi ci sono le persone, e c’è il sadismo di Putin. 

Il professore Timothy Snyder dice che “dovremmo smettere di considerare la democrazia un sostantivo: la democrazia è un verbo, we do democracy”, facciamo democrazia ogni momento, ogni giorno, ovunque sia possibile, prima ancora che un paese o una società si doti degli strumenti e delle istituzioni che definiamo democratici. Un sostantivo è statico, è una definizione, mentre un verbo implica un coinvolgimento, un’attività, una responsabilità anche: la democrazia si fa, anzi, la facciamo noi, ognuno di noi. Snyder è un grande esperto di Ucraina, durante quest’anno ha fatto un’opera di divulgazione unica, scrivendo articoli, inviando newsletter, facendosi testimonial dei progetti civili e militari del governo di Volodymyr Zelensky, spiegando con un ciclo di lezioni a Yale, dove ha una cattedra di Storia, disponibile su YouTube che cosa sta accadendo in Ucraina, da dove viene la brutalità di Putin e dove andrà. Quando ripete che “la storia è adesso, la storia la stiamo vivendo” dà un senso dinamico anche a questa parola, leva il sostantivo e mette il verbo, senza declinarlo in termini retorici o rifacendosi a dottrine astratte, ma calandolo nell’esistenza quotidiana. Fa anche un passo ulteriore, Snyder, e fondamentale: “Da storico, non direi mai che la storia si ripete, perché se si ripetesse, significherebbe che non abbiamo alcun potere su di essa, che siamo solo marionette, che la storia è una forza più grande di noi. E questo non è vero”. 

L’umanizzazione della storia e della democrazia è la chiave per non escludere il costo personale, i puntini e i quadratini, della guerra voluta da Putin e anche per comprendere quanto profonda, potente ed esemplare sia la resistenza ucraina. Nel 2017, Snyder pubblicò “On Tyranny”, un libriccino che sta in una tasca suddiviso in “venti lezioni dal XX secolo”: era un manuale di sopravvivenza democratica rivolto all’America, che stava attraversando uno dei suoi più grossi sconvolgimenti degli anni Duemila, cioè la presidenza di Donald Trump. L’anno scorso ha aggiornato “On Tyranny” in un audiolibro che comprende altre venti lezioni riferite all’Ucraina. “L’Ucraina è un paese che ha perso le sue classi politiche e le sue opportunità politiche più e più volte – dice Snyder – ma che ora, dopo il 1991, dopo il crollo dell’Unione sovietica, ha davvero avuto la sua prima generazione libera e la sua prima possibilità di costruire una democrazia con questa generazione. Quindi la prima cosa da sapere sull’Ucraina è che il XXI secolo ha dato una possibilità all’Ucraina. E ora l’Ucraina si trova di fronte a una guerra in cui l’aggressore cerca di toglierle questa possibilità”. Questa possibilità è il bottino di guerra che Putin sadicamente pretende e che gli ucraini non consegneranno: i confini da stabilire, lo status della Crimea, il venti o il trenta per cento della propria sovranità territoriale da barattare con un po’ di tempo senza attacchi perdono significato di fronte all’occasione di potersi giocare questa possibilità. E’ anche questo che spiega la resistenza ucraina. 

Il Reckoning Project è un progetto di giornalisti e ricercatori che verificano e documentano l’orrore russo in Ucraina. C’è un elemento che ricorre nei racconti dei sopravvissuti alle violenze, gli abusi, le torture (alla loro gratuità, soprattutto) e che descrive la sorpresa dei russi di fronte alla solidarietà spontanea degli ucraini. Un volontario della regione di Kherson ha raccontato che è stato catturato dai russi perché lavorava in una farmacia che raccoglieva le medicine donate dagli altri cittadini. E’ stato picchiato e interrogato: chi ti comanda?, chi organizza questa attività?, cosa fate veramente, traffico di armi? I russi sembravano incapaci di credere che non ci fosse un gruppo segreto che agiva nell’ombra fingendo di dare aiuto e invece complottando chissà che. Così hanno chiesto al volontario di descrivere per iscritto la sua attività: “Lavoravamo così: alcuni portavano quel che avevano, altri prendevano ciò di cui avevano bisogno, ammesso che ce l’avessimo”. I soldati russi non erano soddisfatti: lo hanno picchiato di nuovo, hanno preso tutti i medicinali, lo hanno poi lasciato andare, ma via dalla regione, se ti ritroviamo sei morto. Se il successo ucraino è intollerabile per Putin, la solidarietà del popolo ucraino – spontanea, umanissima – è invece inconcepibile.        
Nel 2021, Nora Krug ha pubblicato una versione illustrata da lei di “On Tyranny”, un volume straordinario perché rende vivo, con disegni, fotografie recuperate nei mercatini e origami, quel che significa “fare democrazia”. Krug pubblica sul Los Angeles Times dall’inizio della guerra  un diario illustrato settimanale  che racconta la guerra vista da K., una giornalista ucraina, e D., un artista russo (l’Espresso ne ha tradotti alcuni lo scorso anno): ad agosto uscirà il libro, Nora è indaffarata e gentile, dice però di guardare e ascoltare le interviste in cui ha spiegato perché illustra la guerra con questi diari incrociati e come ha trasformato “On Tyranny” in un’esperienza interattiva, perché interattiva è la democrazia. Il capitolo dodici si intitola “Guardarsi negli occhi e fare conversazione” – small talk è il termine usato da Snyder – ed è illustrato con due persone sulle rive di un fiume, una di qui e una di là, e la Krug spiega: “Conversare, guardarsi negli occhi, salutarsi non è semplice cortesia, è l’istinto della sopravvivenza”. Anche questo riadattamento in graphic novel è stato concepito prima dell’invasione di Putin, ma poiché la lotta alla tirannia è prima di tutto una questione quotidiana – di esistenza: è così che arriviamo a definire questa guerra esistenziale – oggi questi disegni che si rifanno all’estetica dell’ultimo totalitarismo vissuto in Europa, cioè il nazismo, restituiscono in modo esatto la resistenza ucraina, forza quotidiana e indefessa che permette di vivere in un paese reso invivibile dall’attacco di Mosca. 

Il costo umano, la volontà umana, fare democrazia: la grande differenza tra la difesa dell’Ucraina (e dell’occidente) e l’attacco di Putin si ritrova proprio nel modo con cui si considera l’esistenza umana, la sopravvivenza dentro uno sguardo mentre si condivide un generatore contro il disprezzo delle camere di tortura dove gettare chiunque abbia sul proprio telefono anche soltanto il canale Telegram che avvisa degli attacchi aerei.

Il Time, assieme al Reckoning Project,  ha pubblicato il racconto di un minuscolo paesino nel nord dell’Ucraina, Yahidne, fatto prigioniero dai russi sette giorni dopo l’inizio dell’invasione: tutti i suoi abitanti, circa 360 persone, rinchiusi dai soldati russi nel sotterraneo della scuola per un mese. Il momento dell’arrivo dei russi è descritto così: il “capo” del paese, Valeriy, aveva già fatto scendere gli abitanti nel  sotterraneo di casa sua, “dall’interno, potevano sentire i mezzi pesanti entrare in cortile, calpestare ogni cosa, e sparare. Ma quella sera nessuno scoprì il loro nascondiglio, grazie a uno stratagemma di Valeriy: aveva fatto in modo che la porta sembrasse chiusa dall’esterno. I russi si erano avvicinati ma se n’erano andati. Il giorno successivo però ruppero la serratura. Valeriy gridò: “Non sparate, ci sono dei bambini qui!”. Ogni cosa si era bloccata per un secondo, come se la persona dall’altra parte della porta non si aspettasse di sentire una voce. Poi fu ordinato a tutti di uscire, uno per uno. Valeriy era andato per primo. Gli ordinarono di sdraiarsi nella neve. I russi sequestrarono i telefoni e controllato messaggi e contatti. Se vedevano la parola ‘Kyiv’, chiedevano dettagli, come se quella parola fosse di per sé una minaccia. Perquisirono la casa, trovarono un’uniforme e decisero che Valeriy apparteneva all’esercito. Lui aveva detto che non lo era: parlava in russo, ma il soldato non lo capiva. ‘Militare, militare’, ripeteva il soldato, ignorando la spiegazione. I soldati avevano lineamenti asiatici, il loro russo era scarso, e Valeriy in seguito seppe che provenivano da Tuva, una regione nell’estremo oriente della Russia, una delle più povere del paese. ‘Sposata?’, chiese un soldato a Lilia. ‘No’, mentì lei. ‘Età?’. ‘32. Avete intenzione di ucciderci?’. ‘Sì’”.

Mentire per salvarsi, sentirsi dire che comunque è inutile, la morte è certa, farsi coraggio, smettere di bere acqua alla sera per non dover usare un secchio in cento sotto gli occhi di tutti durante la notte, cantare, studiare, disperarsi nei sotterranei delle case e delle città, farsi ancora coraggio, abituarsi al buio sapendo che la luce tanto sognata, quando arriverà, farà male agli occhi. La resistenza contro il sadismo di Putin è un diario in cui si segna ogni cosa, un taccuino coi puntini, un foglio con scritti i morti, una stanza condivisa, una libreria improvvisata nel sotterraneo perché fa salotto di casa, una determinazione a sopravvivere potente più di una bomba. Fare democrazia è un verbo ucraino.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi