L'intervista

Morire in una sparatoria in America non è inevitabile. Parla Gary Younge

Luciana Grosso

"Il razzismo c’è ovunque, l’antisemitismo pure, così come le persone mentalmente fragili o gli estremisti politici. Ma solo negli Stati Uniti queste persone possono uscire di casa e sparare”, dice l'ex giornalista del Guardian che ora insegna Sociologia all’Università di Manchester

E’ possibile immaginare un’America che non sia piena zeppa di armi? “Nell’immediato no, è impossibile. Ma in futuro chissà. C’è un lungo lavoro culturale da fare, e siamo molto lontani persino dall’iniziarlo. Se mai succederà, sarà una faccenda che riguarderà i figli dei nostri figli. Non noi”, dice al Foglio Gary Younge, a lungo  giornalista del Guardian e ora docente di Sociologia all’Università di Manchester che nel 2016 ha scritto uno dei libri più famosi sulla sconsideratezza dell’uso delle armi negli Stati Uniti, “Un altro giorno di morte in America”. Younge raccontava le storie di dieci adolescenti morti per ferite da armi da fuoco in un giorno a caso dell’America di oggi, partendo dall’assunto che il giorno prima, quello seguente e quello seguente ancora sarebbero stati uguali, il turno di altri dieci ragazzini e poi altri dieci, e così via.

 

Una consuetudine a cui non si fa più caso. I numeri sono più che chiari: negli Stati Uniti, circa 120 persone al giorno vengono uccise da un’arma. Qualcuno si suicida, qualcuno finisce nel posto sbagliato al momento sbagliato, qualcun altro litiga con la persona sbagliata. I motivi del perché si finisca in mezzo a una sparatoria cambiano, il consuntivo a fine giornata, invece, non lo fa mai.   “La ragione per cui non si può immaginare un’America senza armi è che semplicemente non c’è ancora un vero dibattito pubblico in merito. Le persone non riescono neppure a concepire di vivere in un mondo senza armi. Non hanno idea di come sia, non sanno che nel resto del mondo nessuno valuta l’ipotesi di sparare o di prendersi una pallottola. Per il mio  libro, ho intervistato decine di persone: familiari e genitori di ragazzini morti per un colpo di pistola. Eppure, per quanto assurdo possa sembrare, nelle loro parole cariche di dolore, nessuno mai mi ha citato le armi come causa della morte. Un sacco di altre cose, ma mai le armi. Per queste persone, le armi sono parte del paesaggio. E non sono più colpevoli delle auto, dei fulmini o del mare. Anche queste cose uccidono le persone, ma nessuno le incolpa”. 

 

Eppure la presenza di fucili e pistole  fa la differenza: “Non c’è paese al mondo, neppure tra quelli in guerra, in cui ci sono così tante armi. E non c’è paese al mondo con un così alto tasso di vittime da arma da fuoco. La correlazione è evidente –  continua Younge – La presenza stessa delle armi negli Stati Uniti,  e solo negli Stati Uniti, rende qualsiasi situazione potenzialmente letale, anche un diverbio tra vicini o per un parcheggio. Non solo. Il modo in cui la politica si è sviluppata negli ultimi anni, con una forte polarizzazione e una corsa verso gli estremismi, rende tutto più pericoloso: il razzismo c’è ovunque, l’antisemitismo pure, così come le persone mentalmente fragili o gli estremisti politici. Ma solo in America queste persone possono uscire di casa e sparare”. 

 

E quindi come se ne esce? “C’è un’espressione inglese che dice: ‘Se vuoi un maiale grasso devi dargli da mangiare’. Se vogliamo un cambiamento nelle politiche sulle armi, prima dovremo occuparci di tenere aperta la conversazione che le riguarda e scardinare le convinzioni fallaci che ci girano intorno, come quella che negli Stati Uniti le armi siano un fatto prima di tutto culturale, o che le persone comprino armi per autodifesa. Nessuna di queste due cose è vera”. Le pistole come fatto culturale, eredità del west e strumento degli uomini liberi che lottano per difendere la loro stessa vita e per raddrizzare torti, è la storia che più spesso accompagna le posizioni di chi (per lo più repubblicani, ma anche non pochi democratici) difende il Secondo emendamento, quello del diritto a portare armi. “Le armi negli Stati Uniti sono considerate un fatto culturale e storico. Ma se per questo anche il razzismo e la segregazione lo sono. Così come lo è il colonialismo per gli inglesi. Ma oggi, il colonialismo non definisce più gli inglesi. Allo stesso modo è tempo che gli americani smettano di farsi definire da pagine sbagliate della storia e che trovino  una nuova e migliore narrazione che possa fare a meno delle armi. Lo stesso vale per la faccenda dell’autodifesa che è una giustificazione successiva, non precedente. Se davvero dovessimo pensare che gli americani si armano per autoconservazione, allora dovremmo essere consequenziali e assumere che la società americana è più violenta delle altre, non a causa delle armi, ma nonostante le armi. E allora cosa dovremmo presumere, che gli americani sono persone peggiori delle altre? Più violente per natura? Non credo proprio. Sono persone come le altre, solo che a differenza delle altre sono armate”. 

 

Occorre provare a costruire un’America disarmata: “Qualcosa si muove, anche se  poco e  lentamente: dopo la strage alla scuola di Parkland, 17 ragazzi uccisi nel 2018, gli studenti sopravvissuti si organizzarono in un piccolo ma fragoroso movimento per chiedere il controllo delle armi. Non era mai successo prima. Fino a quel momento, il dibattito sulle armi era stato una faccenda riservata agli adulti istruiti e per lo più bianchi. Con Parkland, no.  Al momento, la strada che hanno indicato quei ragazzi è l’unica possibile: tenere vivo il dibattito, far passare il messaggio che le centinaia di morti al giorno non sono né inevitabili né tollerabili, rendere questo fatto culturale il suo opposto, cioè culturalmente inaccettabile. Dobbiamo nutrire il maiale”.

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