Non serve Tiananmen

Le proteste di piazza di oggi in Cina e l'eredità di Jiang Zemin

Giulia Pompili

Il leader cinese Xi Jinping mostra i muscoli con la repressione 2.0 e i suoi aerei da guerra che si esercitano con la Russia 

L’annuncio della morte di Jiang Zemin, l’ex leader della Repubblica popolare cinese, non poteva arrivare in un momento più delicato. Il novantaseienne, che conquistò la leadership del Partito comunista subito dopo il massacro di piazza Tiananmen nel 1989, era da tempo malato, e ora il problema riguarda la sua eredità e come l’attuale governo cinese deciderà di usarla, mentre per la prima volta da più di trent’anni qualcuno  prova a mettere in dubbio la legittimità della leadership di Xi Jinping scendendo in piazza. C’è un precedente storico a cui ieri si faceva spesso riferimento  tra gli osservatori occidentali.

 

 

Hu Yaobang era l’ex segretario generale del Partito comunista cinese tra il 1982 e il 1987 che ebbe un attacco di cuore improvvisamente, due anni dopo la fine del suo incarico, e dopo essere stato destituito e ostracizzato da Deng Xiaoping. La morte di Hu, e il cordoglio della popolazione che ne seguì, è considerata dagli storici una delle motivazioni per cui si formarono le proteste di piazza del 1989. Come Jiang, anche Hu era una figura controversa, non esattamente un leader aperto alla partecipazione democratica, ma dopo la morte divenne un simbolo. Per il Partito oggi sarà impossibile vietare delle forme di commemorazione per Jiang, ma quelle stesse manifestazioni di cordoglio potrebbero diventare l’occasione per criticare l’attuale leadership. 

 

 

Ieri ci si aspettava una repressione più violenta nei confronti dei manifestanti, dopo le minacce neanche troppo velate di Chen Wenqing, funzionario dell’intelligence, ex ministro per la Sicurezza di stato e membro del Politburo, che per la prima volta dall’inizio delle proteste ha mandato un messaggio chiaro ai manifestanti: le autorità reprimeranno “con decisione le infiltrazioni e  le attività di sabotaggio da parte di forze ostili, nonché contro gli atti illegali e criminali che sconvolgono l’ordine sociale”. Non è successo – ancora. Ma forse non ci sarà nemmeno bisogno di una reazione bellicosa da parte della leadership centrale di Pechino. Ieri non è stato possibile verificare – non ce l’ha fatta nemmeno il New York Times – la portata delle proteste che si sono concentrate per lo più nella città di Guangzhou, nel sud della Cina. Alcuni video che hanno bucato la censura mostrano manifestanti e forze dell’ordine in tenuta antisommossa che si scontrano. “La reazione iniziale delle forze di polizia è stata relativamente limitata”, spiega Katja Drinhausen  del Merics, “soprattutto a Shanghai e in altre grandi città. Ma ora che la polizia ha disperso le proteste, lo stato-partito probabilmente utilizzerà tutto ciò che è a sua disposizione per contenere e prevenire ulteriori manifestazioni e la diffusione delle proteste. Dopotutto, questo è uno scenario per il quale si stanno preparando da tempo”. Un avvocato che sta offrendo assistenza legale ad alcuni dei manifestanti, ha spiegato in modo anonimo, ieri, a William Yang del Deutsche Welle, che alcuni dei suoi assistiti a Guangzhou, dopo essere stati fermati dalla polizia, hanno notato degli strani tentativi di accesso dall’esterno ai loro account di Telegram. Altre persone a Pechino hanno detto di aver partecipato alle proteste soltanto per poco tempo, ma poi di essere state raggiunte telefonicamente dalla polizia per una convocazione formale in commissariato. Lo stato di sorveglianza tecnologica creato negli anni dalla Cina funziona alla perfezione quando si tratta di fare controllo sociale (sono anni che si esercitano nelle regioni più complicate e a rischio proteste, come lo Xinjiang). 

 

 

A un mese e mezzo dalla sua conferma al Congresso del Partito, e a due settimane dal suo ritorno nella diplomazia internazionale al G20 di Bali, Xi Jinping si trova a dover gestire una situazione complicata. La reazione che gli analisti si aspettano da lui è che vorrà mostrarsi stabile e ben saldo al potere, non solo internamente, ma anche all’estero. E’ anche alla luce di questo che vanno interpretate le esercitazioni militari aeree congiunte, ieri, tra Russia e Cina sul mar Cinese orientale e sul mar del Giappone. E “per la prima volta nella storia dei pattugliamenti aerei, aerei russi sono atterrati nella Repubblica popolare cinese e aerei cinesi sono atterrati sul territorio della Federazione russa”, ha fatto sapere il ministero della Difesa di Mosca. I bombardieri russo-cinesi hanno violato sia la Zona di identificazione aerea coreana sia quella giapponese. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, atterra oggi a Pechino con un tempismo terribile. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.