Proteste in stand by

La Cina ferma tutti con l'intimidazione. Non solo i suoi cittadini, ma pure l'occidente

Giulia Pompili

La solidarietà che manca ai manifestanti cinesi fuori dai confini nazionali è il successo di Pechino 

Come per tutti i regimi autoritari, la sicurezza interna e la stabilità della Cina sono le priorità del Partito comunista cinese, che sa esattamente come gestire i timidi approcci di protesta dei cittadini. L’anomalia, semmai, è che solo per la Cina non esiste una mobilitazione internazionale, non esiste una diaspora che sostenga da lontano chi protesta in patria, non c’è una società civile occidentale che si senta sufficientemente legata agli ideali dei manifestanti cinesi. E’ il motivo per cui nelle capitali europee non ci sono manifestazioni di solidarietà per i cittadini cinesi come quelle per le donne iraniane o per l’Ucraina. E’ la conseguenza di una strategia della leadership cinese che funziona alla perfezione, sia dentro al paese sia all’estero, e che va avanti da anni.


Dopo qualche giorno di manifestazioni in strada, a Pechino, a Shanghai, a Wuhan, in decine di università sparse nel paese, le forze dell’ordine cinesi hanno fatto capire che la macchina repressiva è già al lavoro: tra ieri e oggi ci sono stati diversi arresti e interrogatori fra le persone che avevano partecipato alle proteste contro la politica Zero Covid, le strade che erano state scelte come luogo per le manifestazioni sono state praticamente militarizzate, con alte barriere tra la carreggiata e i marciapiedi. La polizia cinese ha iniziato a fermare i passanti e perfino la gente a caso pure sui mezzi pubblici, per controllare gli smartphone, le fotografie al loro interno e le applicazioni attive: se c’è qualche immagine considerata sensibile, se ci sono applicazioni teoricamente censurate come Twitter e Telegram, oppure applicazioni per eludere la censura come i Vpn, vengono prontamente cancellate e i proprietari dei telefoni segnalati. Certe azioni sono una goccia in un oceano di frustrazione e risentimento che sta montando, ma servono a un obiettivo più facile e immediato: intimidire. Già ieri, grazie alle azioni delle forze dell’ordine, le proteste in Cina si sono notevolmente ridotte. Qualcosa forse sta cambiando: in alcune aree ci sono stati degli allentamenti sulle restrizioni. Il dipartimento per la Prevenzione delle malattie infettive di Pechino, sempre ieri, ha pubblicato nuove linee guida per la vaccinazione di massa degli anziani e sembra ci sia in corso un cambio di narrazione sulla pericolosità del virus. Ma il Politburo del Partito, riunito ieri, ha rinnovato l’esigenza di “ristabilire l’ordine”.  L’intimidazione funziona, e che le manifestazioni di dissenso diminuissero, invece di aumentare d’intensità, era ampiamente prevedibile. 

 

 

La propaganda cinese ha già dato una sua interpretazione delle proteste di questi giorni, che in alcuni casi, e per la prima volta da più di trent’anni, hanno fatto un riferimento diretto all’autoritarismo della leadership del Partito e di Xi Jinping, all’assenza di libertà di espressione e di stampa. La colpa sarebbe delle influenze esterne. La risposta migliore l’hanno data i manifestanti, come si vede in diversi video che circolano su Twitter. Alcuni a Pechino hanno gridato: “Se non possiamo navigare sulle pagine internet straniere, se non ci è permesso viaggiare fuori dalla Cina, come farebbero le forze esterne a comunicare con noi?”. E altri: “Le forze straniere di cui parlate sono Marx e Engels”. Questa comunicazione impossibile tra l’interno e l’esterno è vera, soprattutto se si pensa alla mobilitazione internazionale invisibile quando si parla della difesa dei diritti dei cittadini cinesi. Ieri ci sono state manifestazioni di solidarietà per i cittadini cinesi in America, in Canada, in Giappone, in Australia, organizzate dalla diaspora e supportate dai governi locali. Qualcosa è stato organizzato nel Regno Unito, base di molti fuggitivi dall’ex colonia di Hong Kong, e in Italia poche decine di persone si sono radunate con i fogli bianchi a Milano, Firenze e Bologna (non a Roma). A colloquio con il Foglio, chi ha partecipato alla manifestazione di Milano dice che nessun attivista anticinese si sente al sicuro nel farsi identificare, a causa della presenza di “agenti cinesi” in Italia – per esempio, la stazione di polizia d’oltremare individuata dal Foglio a Prato, a cui si aggiunge la capacità delle forze di sicurezza cinesi di controllare i cittadini anche fuori dai confini nazionali grazie alla capacità di mobilitazione e di humint (human intelligence).

 

Non è un caso se l’Italia è l’ultima destinazione scelta per chi scappa dalla Cina: nel nostro paese la piccolissima comunità uigura (circa 60 persone) viene grazie a borse di studio ma difficilmente si mobilita, perché in Cina resta la famiglia, che può essere sempre usata come arma di ricatto. In Europa c’è poi l’enorme lavoro che è stato fatto dai gruppi d’interesse cinesi per silenziare gli attivisti anche all’estero, e intimidirli come in patria. La Germania è la sede della più grande comunità della diaspora cinese, ma allo stesso tempo la Germania è anche il più importante partner commerciale della Cina nell’Unione europea. E’ il motivo per cui, secondo molti analisti, c’è un’enorme cautela quando si tratta un argomento delicato come le proteste contro il Partito comunista cinese – una cautela che era stata rilevata in molti governi anche due anni fa, ai tempi della legge sulla Sicurezza di Hong Kong. L’accusa di “interferenze esterne” da parte delle autorità di Pechino intimidisce i governi stranieri, soprattutto in un momento in cui si sta cercando di riattivare il dialogo con la Cina. E tutte le forze politiche, a cominciare dall’Italia, hanno evitato di fare riferimenti diretti alla mobilitazione per i manifestanti cinesi. Eppure ieri al Parlamento inglese è finito il caso dell’arresto di un giornalista della Bbc, Edward Lawrence, a seguito del quale per la seconda volta in poche settimane l’ambasciatore cinese a Londra è stato convocato dal ministero degli Esteri. Il primo ministro Rishi Sunak ha detto ieri che “l’età dell’oro delle relazioni con la Cina è finita”: “Invece di ascoltare le proteste del suo popolo, il governo cinese ha scelto di dare un ulteriore giro di vite”, ha detto Sunak. La risposta del portavoce dell’ambasciata cinese è stata: sono affari interni. Per i manifestanti cinesi, i pochi coraggiosi che nei giorni scorsi hanno provato a dire: vogliamo più libertà, sappiamo già come andrà a finire. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.