(courtesy Elise Blanchard) 

Reportage dal disastro di Kabul. I miracoli grandi e piccoli di tre donne coraggiose in Afghanistan

“L'economia al collasso, la forza lavoro femminile cancellata, e poi la siccità, il Covid… Un vortice che inghiotte tutto.” L'inverno sarà la prova più difficile

Francesca d'Aloja

Tre europee sotto il regime talebano. Non hanno rinunciato al lavoro di cura per un popolo martoriato, nonostante pericoli e restrizioni. Oggi si raccontano, nel paese che è il loro destino

Mai stata in Afghanistan. Ci arrivo in un 2022 che figura solo formalmente sui calendari di questo affascinante, strano, unico paese. Un luogo, lontano nello spazio e soprattutto nel tempo, in cui il futuro è un concetto astratto.

 
Due settimane al seguito della ong italiana Intersos, che in Afghanistan, come in altri ventidue paesi, fornisce cure mediche e beni di prima necessità a vittime di guerre, violenze, disastri naturali.  Privilegio assai raro questo, l’accesso nell’Afghanistan governato dai talebani non è faccenda scontata, soprattutto per chi di mestiere scrive sui mezzi di informazione. Ancor meno scontato è risiedervi da espatriati (i cosiddetti expat), proseguendo, in certi casi, un lavoro che oggi si deve adeguare a diversi regolamenti, nuovi (o antichi, secondo i punti di vista) comportamenti, reiterate intransigenze e soffocanti limitazioni. Non che prima fosse facile, da almeno quarant’anni l’Afghanistan è al centro di contese, guerre civili, invasioni di territorio. Fino al 30 agosto 2021, la presenza occidentale, nel bene e nel male, era molto più capillare: dopo l’abbandono da parte degli americani, e a seguire di tutti gli altri contingenti, è oggi ridotta al minimo. L’insediamento del governo talebano, dichiarato illegittimo dalle comunità internazionali, ha sospeso il clima di insicurezza che regnava da anni, ma in nome di questa precaria pacificazione si tollera l’intollerabile. Ci si chiede quanto potrà andare avanti. Il termine sospensione è forse il più consono a definire l’atmosfera che si respira lungo strade ora percorribili, ma pur sempre interrotte da continui posti di blocco, di città e villaggi che attendono di conoscere il loro destino.

 

Il peggioramento delle condizioni economiche sta condannando metà della popolazione afghana all’emergenza alimentare

 

La crisi umanitaria in atto e lo spettro di un progressivo peggioramento delle condizioni economiche stanno condannando metà della popolazione a quel che i report delle organizzazioni umanitarie sul territorio definiscono “emergenza alimentare”: sono oramai più di venti milioni le persone ridotte alla fame, una catastrofe senza precedenti. Oggi più che mai, il lavoro svolto da alcune persone, anche se ulteriormente complicato, si fa ancora più urgente. Ne ho incontrate tre, tre donne occidentali (due italiane e una francese) che vivono in Afghanistan: l’unico paese al mondo, ricordiamolo, in cui le autorità impediscono alle ragazze di ricevere un’istruzione, vietano alle donne di uscire di casa se non accompagnate da un uomo, non permettono loro di ricoprire cariche pubbliche o governative né di praticare discipline sportive. Vietato usare cosmetici, indossare tacchi, andare in bicicletta, affacciarsi al balcone, ridere in pubblico… 

 

Le limitazioni imposte alle straniere cooperanti, in confronto alle spaventose restrizioni subite dalle donne afghane, si relativizzano

  
Ecco dunque che le limitazioni imposte alle straniere cooperanti, in confronto alle spaventose restrizioni subite dalle donne afghane, si relativizzano e diventano “sopportabili” come hanno tenuto a precisare Maria Regina, Elise e Marianna che in Afghanistan, malgrado tutto, riescono a lavorare.

  
Maria Regina Zulianello è una fisioterapista con esperienza trentennale nelle zone più disagiate del pianeta. Ha lavorato soprattutto in Africa, ma anche in Giordania e in Iraq. Proprio mentre si trova in quest’ultimo paese, riceve una telefonata che le offre una nuova, inattesa esperienza. All’altro capo del filo, Alberto Cairo: “Ho bisogno di te qui in Afghanistan”. 

  

Maria Regina Zulianello è fisioterapista in un centro della Croce Rossa. La giovane che l’ha preceduta è stata uccisa da un paziente

  
Per chi non lo sapesse (e spero siate in pochi), Alberto Cairo è l’uomo che più di trent’anni fa, sotto l’egida della Croce Rossa, ha fondato un centro di fisioterapia e riabilitazione a Kabul grazie al quale 96.000 persone rimaste invalide per via della guerra, delle mine inesplose o vittime di incidenti sono state curate (sommando i dati degli altri sei centri dislocati nel paese si raggiunge la cifra di 230.000 pazienti). Accomunati dallo stesso mestiere, Alberto e Regina si erano conosciuti in Sud Sudan nel 1988, poi si erano persi di vista, entrambi assorbiti dalle rispettive missioni (non mi viene altra parola per definire ciò che fanno). La telefonata arrivata da Kabul aveva tutta l’aria di un appello: nel 2017, Lorena Enebral, una giovane fisioterapista spagnola che affiancava Alberto Cairo, era stata uccisa da un paziente che aveva ricevuto dai talebani l’ordine di colpire un espatriato. Per due anni il centro è andato avanti senza l’apporto fondamentale di un fisioterapista. Un vuoto professionale (e affettivo) ingigantito ulteriormente dal biennio di pandemia Covid. Regina era stata chiamata a colmarlo, quel vuoto, e concluso il suo impegno in Iraq si era trasferita in Afghanistan senza pensarci troppo. “C’erano molte aspettative su di me…”. Tutte soddisfatte. Quando sono andata a trovare Alberto nel suo centro, riferendosi a Regina mi ha confidato: “E’ la più brava con cui abbia mai lavorato”. Il 95 per cento degli operatori che collaborano con Cairo sono tutti ex pazienti, disabili che non solo hanno recuperato l’uso delle gambe ma hanno anche imparato un mestiere. Un principio fondativo che lo stesso Cairo definisce con orgoglio “discriminazione positiva”. 

 

  
“Alberto ha costruito qualcosa che nessun altro ha mai fatto, il suo è un esempio che andrebbe replicato” mi dice Regina nella sua casa di Kabul, situata all’interno del compound della Croce Rossa Internazionale, di fronte a un bel piatto di orecchiette al pomodoro preparate da lei. In forno, una profumata torta di mele. Un pranzo che in altre circostanze rientrerebbe nella norma della convivialità, qui assume tutt’altro significato, considerando le limitazioni cui Regina e i suoi colleghi sono soggetti: non poter mai uscire se non per andare al lavoro, rinunciare alle più banali distrazioni come il ristorante, una passeggiata, addirittura la spesa al supermercato… 

 
Per chi vive blindato, mantenere un legame con le proprie abitudini è fondamentale. Ingenuamente le chiedo: “E il parrucchiere…?”, mi risponde con un sorriso, taglio e piega se li concede in Olanda, dove vivono i figli che va a trovare saltuariamente. “Qui si sta bene, ho anche a disposizione un piccolo patio affacciato all’esterno, una fortuna che non capita a molti”. Lo sguardo allusivo è rivolto al marito Sergio Mainetti, responsabile dei programmi Intersos per l’Afghanistan, oggi eccezionalmente seduto a tavola insieme a noi. Anche per lui le regole sono ferree, basti pensare che Sergio e Regina possono incontrarsi solo un weekend su due e che lei non è mai potuta andare nel compound dove vive il marito. “E’ dura, ma è il nostro lavoro, e per quanto assurdo, vivendo nella stessa città, quel poco tempo concesso è comunque un privilegio. In passato a separarci erano oceani e continenti…”. 

 

Al centro arrivano molti bambini colpiti da paralisi cerebrale in seguito a difficoltà durante il parto. “Le donne, specie al sud, partoriscono in casa”

  
Regina si occupa principalmente di bambini disabili. Al centro c’è un reparto destinato ai piccoli pazienti con problemi neurologici. Ne arrivano molti, colpiti da paralisi cerebrale in seguito a difficoltà durante il parto. “Qui le donne, soprattutto al sud, partoriscono in casa, senza assistenza medica, e le complicazioni spesso generano danni cerebrali ai nascituri”. Altre cause possono essere i matrimoni fra consanguinei, gli insufficienti controlli prenatali, la difficoltà di accesso alle donne negli ospedali, l’elevato numero di gravidanze (una media di cinque per famiglia). “In Afghanistan sono i familiari a prendersi cura dei disabili, non sono abituati a delegare ad altri il loro accudimento, e questo è un bene. Io faccio leva su questa tendenza e cerco di coinvolgere quanto più possibile la famiglia perché è un aspetto fondamentale, soprattutto dopo il rientro a casa. Certo, per molti arrivare da noi non è scontato, non hanno i soldi per il viaggio, non possono permettersi di lasciare gli altri figli, ma noi cerchiamo di aiutarli anche da questo punto di vista”. In aggiunta al suo lavoro, Regina promuove corsi di formazione professionale accessibili anche alle donne, il settore sanitario è il solo nel quale sia concessa la presenza femminile. “Rispetto a loro io sono libera. Ho il passaporto, posso partire quando voglio.”

  

Elise Blanchard, fotografa: “La partenza dopo il 15 agosto 2021 era un inferno, due giorni in un campo, facevamo i turni per dormire”

  
In alcune tappe della nostra missione ci ha accompagnato Elise Blanchard, una giovane fotografa francese con la quale ho parlato a lungo. Dopo aver ascoltato i suoi racconti e averla vista in azione, ho pensato che sarebbe stato bello invertirli, i ruoli: seguire lei nei suoi spostamenti invece che il contrario. Elise potrebbe essere l’ideale protagonista di un documentario, la sua avventurosa esperienza in Afghanistan è una testimonianza appassionante.

  
Nel 2019 Elise Blanchard si trasferisce a Kabul, ha solo 26 anni ma le idee ben chiare: vuole conoscere l’Afghanistan. Un desiderio nato a Parigi, quando frequentando la scuola di giornalismo della prestigiosa Sciences Po (e a seguito di un master alla Columbia University di New York), comincia a occuparsi dei rifugiati. Va nei campi, raccoglie le loro storie, li aiuta. Molti sono afghani e su questi ultimi si concentra il suo interesse, ma ben presto capisce che per approfondire la complicata “questione afghana” l’esperienza diretta sia inderogabile. E decide di partire. A Kabul divide l’appartamento con un gruppo di giornalisti, tutti con una lunga esperienza alle spalle. E’ il suo apprendistato: “Li seguivo dappertutto, mi hanno insegnato il mestiere. Era un periodo molto fertile, in Afghanistan arrivava gente da ogni parte del mondo, c’erano giornalisti, fotografi, operatori umanitari, studiosi, era molto stimolante.” Poi è arrivato il 15 agosto 2021, e tutto è precipitato. 


Le chiedo di ricordare quel giorno: “Quando ho saputo che Kandahar era caduta, ho capito che entro breve sarebbero arrivati anche qui, nella capitale. L’ambasciata francese e la mia agenzia, AFP, si stavano impegnando per farmi rientrare in Francia, ma io non volevo partire, era troppo importante quel che stava accadendo, volevo documentarlo. Non sapevo cosa fare, ho chiamato mia madre per chiederle un consiglio e lei mi ha risposto ‘fai quello che credi sia giusto’. Poi ho pensato che se fossi rimasta avrei scaricato sull’agenzia una responsabilità troppo grande, nel caso mi fosse successo qualcosa avrebbero dirottato l’attenzione su di me distogliendola dagli unici che la meritavano, e allora mi sono rifugiata all’ambasciata e da lì sono stata evacuata all’aeroporto. Era un inferno, sono rimasta due giorni in un campo allestito lì vicino: eravamo tutti ammassati, facevamo i turni per dormire, dovevamo restare vigili in moda da approfittare del primo aereo disponibile. Non ero preoccupata per me, il mio passaporto mi rassicurava, quanto per gli amici afghani che avevano collaborato con noi ed erano davvero in pericolo.”

 

Dopo essere finalmente riuscita a rientrare in Francia, Elise ha un solo pensiero: tornare al più presto in Afghanistan. Ma la sua agenzia esita, troppo rischioso per una donna, allora lei minaccia di licenziarsi e tornare come freelance, AFP cede e le permette di ripartire. E dopo pochi mesi eccola di nuovo a Kabul. Nel frattempo tutto è cambiato: non potendo più contare sull’aiuto di traduttrici, indispensabili per poter interloquire con le donne afghane (agli uomini è vietato), Elise si mette a studiare il dari, la lingua locale, e sarà questo il vantaggio rispetto a tanti suoi colleghi. “Comunicare senza l’aiuto di un intermediario ha fatto la differenza, non solo professionale. Quando non posso scattare, perché in certi casi è vietato, ho comunque l’opportunità di parlare con loro, e per me è un grande privilegio”. Il suo obiettivo è raggiungere luoghi un tempo inaccessibili, approfittando di uno dei pochi aspetti positivi della pace ristabilita.

 

“Mi chiedo come facciano a sopportare uno straniero dopo tutte le guerre gestite da stranieri. Mi sorprende sempre la loro accoglienza”

    
“Non hai paura ad andare in giro sola?” le chiedo ammirata. “Basta stare attenti” mi risponde pragmatica. Elise è la rappresentazione della donna libera e autonoma, e a me pare straordinario che riesca a esprimere queste prerogative nel paese in cui la parola libertà non esiste. Un’esigenza talmente impellente che lo stesso legame con l’agenzia risulta troppo vincolante: tornata in Afghanistan Elise decide di continuare il suo lavoro come freelance. Free, appunto. “Io amo gli afghani, mi piace stare insieme a loro. Piano piano ho guadagnato la loro fiducia. Mi chiedo come facciano a sopportarmi, a sopportare uno straniero dopo oltre quarant’anni di guerre gestite da stranieri. Mi sorprende sempre la loro accoglienza, nonostante tutto”. I reportage e le foto di Elise, che collabora con importanti testate internazionali, sono bellissimi. Per chi fa il suo mestiere questi luoghi e queste facce sono davvero impareggiabili. “Di questo paese si è sempre parlato in un solo modo, ma c’è un altro Afghanistan che andrebbe conosciuto. Io vado molto nelle campagne, le preferisco alle città, ho incontrato persone meravigliose che pur poverissime mi hanno ospitato nelle loro case con grande generosità. Se resto ancora dopo quattro anni è perché voglio spingermi oltre i cliché, e questo è possibile solo attraverso la conoscenza. Pensiamo ai talebani e all’immagine che abbiamo di loro… anche in questo caso le sfumature sono infinite. I politici, quelli che detengono il potere, sono diversi dai civili talebani.” 

  


Le infinite sfumature… Qui in Afghanistan il concetto si fa tangibile. I contrasti sono smisurati, miseria e nobiltà, amabilità e spietatezza, innocenza e barbarie. La sola cosa che ho capito in due settimane è che non basterebbero anni: decifrare questo misterioso paese è praticamente impossibile, e farsi condizionare da considerazioni dettate dalla nostra cultura è forse l’errore più grande. “Proprio così, osservare gli afghani con i nostri occhi è fuorviante” mi dice Elise mentre si muove sicura nelle stradine fangose di un villaggio che siamo venuti a visitare: “Quando credi di aver finalmente capito l’Afghanistan, allora vuol dire che non l’hai capito.” 


Mi mancherà questa ragazza formidabile. A proposito di nostalgie le chiedo: “Cosa ti manca dell’Europa?”. “La mer”. Il mare.

  
All’ingresso dei diversi presidi medici Intersos che siamo andati a visitare, alcuni dei quali situati in luoghi remoti e dimenticati, spesso figura l’acronimo Echo (European Civil Protection and Humanitarian Aid Operation), ovvero l’ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione europea. L’Unione europea è infatti il primo donatore al mondo a garantire aiuti umanitari e protezione civile ai territori colpiti da conflitti o calamità naturali mediante finanziamento alle ong, alle agenzie delle Nazioni Unite o a organizzazioni internazionali come la Croce Rossa. 

  

Marianna Franco fa parte dell’ufficio per gli aiuti umanitari della Commissione europea: “Kabul è diventata la mia seconda casa”

   
A rappresentare Echo a Kabul c’è Marianna Franco, tornata in Afghanistan dopo sedici anni: “Dopo il master in diritti umani alla London School of Economics ho cominciato a lavorare per una ong a Parigi, e la mia prima missione, nel 2006, fu proprio in Afghanistan dove rimasi due anni”, mi racconta collegandosi in remoto dal suo ufficio di Kabul, troppi gli impegni e troppe le difficoltà per incontrarsi di persona: “Si vede che questo paese fa parte del mio destino, quando mi è stato proposto di tornare ho accettato con gioia, Kabul è ormai diventata la mia seconda casa”. Pensando a Sanremo, la città dov’è nata, fa un certo effetto. 


Fra la prima e l’ultima missione, tanto lavoro in giro per il mondo: Nigeria, Mali, Congo, Yemen, Giordania, Iraq, Haiti, Siria, solo per citare alcuni dei paesi in cui ha vissuto. Luoghi difficili. Mi chiedo e le chiedo cosa significhi passare gran parte della propria vita in paesi in crisi, avere a che fare quotidianamente con il dolore della gente. “Sin dall’inizio ho voluto stare sul campo, sapevo che questa scelta mi avrebbe messa di fronte alla sofferenza altrui, ma sono fatta così, ho sempre privilegiato l’azione al lavoro di ufficio.”


Marianna è tornata in Afghanistan il 15 giugno 2021, due mesi esatti prima di quello che qui viene chiamato “The Change”. “Posso dire di aver conosciuto tre Afghanistan diversi: durante mio primo biennio, nonostante le difficoltà riuscivamo comunque a svolgere il nostro lavoro, avevamo una certa libertà di movimento. Quando sono tornata nel 2021, era diventato tutto più complicato e caotico, e dopo la caduta la situazione è di nuovo cambiata. Il nostro lavoro oggi è soggetto a quel che in gergo si chiama ‘Start and stop programming’, ossia il tira e molla delle negoziazioni per ottenere assensi o permessi. Noi cerchiamo di sopperire con tutti i mezzi possibili a una situazione che non può essere risolta dalle organizzazioni umanitarie. Qui non funziona più nulla, l’economia è al collasso, la gente non percepisce più lo stipendio, la forza lavoro femminile è stata cancellata, e poi mettiamoci la siccità, i due anni di Covid… la combinazione di tutte queste sciagure ha creato un vortice che inghiotte tutto.”

 

L’avanzare dell’inverno sarà una prova difficilissima da superare. “Quest’anno siamo riusciti a sventare una carestia, l’investimento nella sicurezza alimentare copre, qui in Afghanistan, la percentuale più alta del budget previsto, 169 milioni di euro, ma la nostra partecipazione è di carattere umanitario, non economico. Sta alla comunità internazionale prevedere investimenti per far ripartire l’economia, ci si chiede però quanto possa essere motivata in tal senso…”. La seconda priorità dell’ufficio Echo riguarda l’assistenza sanitaria nei luoghi sprovvisti di strutture sanitarie nazionali, che oggi possono contare sul contributo di équipe mediche mobili o presidi fissi a disposizione della comunità locale.  Ne ho visitati diversi, piccole oasi di conforto nel deserto, e ogni volta sono rimasta colpita dalla partecipazione non solo dei medici che lavorano a ritmi forsennati, ma degli stessi beneficiari che si affidano con gratitudine alle loro cure. 

  

courtesy Elise Blanchard

“Uno dei problemi più seri, le cui conseguenze si pagheranno nel prossimo futuro, è quello dell’istruzione. Il sistema scolastico nazionale, già estremamente deficitario, sta precipitando in caduta libera per via delle sanzioni internazionali che non riconoscendo il governo attuale, hanno paralizzato gli investimenti un tempo garantiti per larga parte dagli accordi di cooperazione bilaterale. Per fortuna esistono le eccezioni relative agli aiuti umanitari, che non essendo vincolati al governo provvedono ai cosiddetti ‘basic human needs’. E’ la ragione per cui siamo qui a svolgere il nostro lavoro, ma naturalmente il nostro apporto è minimo rispetto all’ampiezza del problema.” Un contributo difficile da sostenere anche a causa della drastica fuoriuscita del personale locale. “Il 15 agosto dell’anno scorso, il giorno stesso del take over, il personale internazionale del nostro ufficio è stato evacuato. Dopo un mese alcuni di noi sono rientrati, ma i trentatré afghani che facevano parte dello staff non c’erano più… Per un po’ di tempo siamo andate avanti in due, io e una collega, ora siamo quattro, un numero davvero esiguo per un ufficio come il nostro. Per fortuna da qualche giorno stiamo ricominciando a integrare lo staff con personale locale, ed è un sollievo.”

 

“Non ho avuto una vita da ragazza ‘normale’, ho dovuto cambiare l’ordine delle mie priorità”. Un esercizio che andrebbe praticato da ciascuno

 

Le chiedo se per svolgere un lavoro come il suo occorra avere un carattere particolare. “Io non ho avuto una vita da ragazza ‘normale’, ne sono consapevole. Per fare questo lavoro ho rinunciato e devo rinunciare a tantissime cose, ma basta organizzarsi. Ho solo dovuto cambiare l’ordine delle mie priorità… Certo, vivere sotto restrizioni è psicologicamente pesante, non ci si abitua mai, anche dopo anni. Ho una sola settimana di stacco ogni tre mesi, e per me quei sette giorni sono sacri!”. Cambiare l’ordine delle priorità: un esercizio che andrebbe praticato da ciascuno, periodicamente, come si fa con il cambio degli armadi, o lo svuotamento dei cassetti, con tutto ciò che ingombra insomma. “Non c’è nulla di più istruttivo in questo senso di un paese come l’Afghanistan. Quando ti confronti con le donne che vivono qui i tuoi limiti evaporano. Tempo fa ho chiesto a una donna che vive in una zona rurale cosa fosse cambiato nella sua vita dopo l’arrivo dei talebani, e sai cosa mi ha risposto? ‘Nulla’”.