I fantasmi di Kabul. Perché il disastro afghano parla all'Italia

Cecilia Sala

Nell’agosto 2021 il ritiro degli americani, mentre gli incursori dei Carabinieri recuperavano gli afghani in pericolo nei vicoli della capitale. Oggi le stragi, e il capo di al Qaida protetto dal ministro talebano. Ma non sono vent’anni persi: le ragazze sfidano in silenzio il regime

L’agenda Biden è questo: non fare neanche un errore”, disse un anno fa la speaker della Camera Nancy Pelosi in una conversazione con il direttore dell’Atlantic Jeffrey Goldberg – erano passate sei settimane dal Ferragosto in cui Kabul è tornata nelle mani dei talebani. Il giorno in cui l’ultimo soldato americano ha lasciato l’Afghanistan, nella zona verde della capitale i check point dell’esercito erano occupati dagli uomini del clan Haqqani. La “fazione intransigente”, come la chiamava Mirwais senza mai pronunciarne il nome, con il giusto misto di deferenza e timore che andava accordato al nuovo potere costituito da parte di un impiegato delle Nazioni Unite afghano che non sapeva se avesse anche lui diritto a scappare dal paese (e, in quel caso, se sarebbe stato possibile nella pratica), se il giorno dopo si fosse dovuto presentare a lavoro (“Non funziona più neanche la password di sistema sul mio pc aziendale”) e se lo avesse ancora un lavoro (“Anche le Nazioni Unite se ne vanno?”).

   
Il clan Haqqani è sponsorizzato dai servizi segreti pachistani, ha sempre mantenuto ottimi rapporti con al Qaida e il suo capo, Sirajuddin Haqqani, è il ministro degli Interni del governo talebano. E’ un clan famigliare: il padre di Sirajuddin è stato uno dei mentori di Osama bin Laden, il cui successore, il leader di al Qaida Ayman al Zawahiri, una settimana fa è stato ucciso da un drone americano in un appartamento controllato dal gruppo Haqqani nel quartiere di lusso Sherpur, a Kabul. Joe Biden ha commentato con una frase che ripeteva spesso anche un anno fa durante il ritiro: “Gli Stati Uniti non hanno bisogno di migliaia di truppe dispiegate in una missione sul campo per identificare ed eliminare le minacce al nostro paese”, bastano le operazioni over the horizon con i droni. Questa è stata un vero successo, la penultima era andata a vuoto e la terzultima aveva ucciso dieci civili di cui sette bambini invece di un commando dell’Iskp (l’Isis in Afghanistan) che doveva essere il bersaglio delle bombe. 
 

Alcuni osservatori, veterani e politici americani, si sono domandati: non ci sarà invece da preoccuparsi se il numero uno di Al Qaida viveva in un attico con terrazza nel centro di Kabul (era lì da mesi, la Cia lo osservava da aprile), aveva una routine regolare e usciva alla luce del sole (due cose molto pericolose per un super ricercato), senza doversi più nascondere in una grotta del Nangarhar, tra le montagne al confine con il Pakistan? Le montagne del Nangarhar sono un territorio degli Haqqani e la zona dove, trent’anni fa, si sono incontrati per la prima volta il saudita bin Laden e l’egiziano al Zawahiri, dove un decennio più tardi hanno organizzato insieme l’attentato alle Torri gemelle e al Pentagono e da dove sono dovuti scappare nel 2001. 
 

Venerdì Christopher Wray, il direttore dell’Fbi, ha detto di temere che degli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti non vengano scoperti per tempo a causa della “perdita di intelligence” sul campo in Afghanistan. Nel 2022, al Zawahiri usciva ogni mattina sul balcone perché adesso al governo c’è un amico e un protettore che è anche l’uomo che si occupa della sicurezza nel paese, teoricamente ricercato pure lui e con una taglia da dieci milioni sulla testa. 
 

Il 16 agosto 2021 Biden disse: “La nostra missione in Afghanistan non è mai stata il nation-building”, ma punire e rendere inoffensiva la rete di Al Qaida nel paese. I talebani non perseguono il jihad globale, sono dei nazionalisti, ma hanno il vizio di consentire ai terroristi amici con obiettivi più ambiziosi fuori dai confini di prosperare, pianificare e muoversi sul proprio territorio (al Qaida). E non sono bravi a contenere i gruppi con gli stessi obiettivi, che però sono nemici perché hanno dichiarato guerra al loro governo: l’Iskp, appena i talebani sono tornati al potere, ha cominciato a scalare le classifiche di al Naba, il magazine dell’Isis – le classifiche si basano sul numero di “infedeli” uccisi e sul numero di operazioni portate a termine con successo. Per ventuno giorni di fila, fino al 5 agosto, l’Iskp è stato insolitamente poco attivo, l’ultima volta che era successa una cosa simile – a settembre del 2021 – il gruppo stava preparando la più cruenta sequenza di attacchi mai realizzata nella sua storia. Il silenzio si è interrotto venerdì: il giorno della preghiera nel mondo islamico e quello preferito dall’Isis per piazzare le bombe, c’è stata una strage dell’Iskp nella capitale che ha fatto venti morti.

    
Ce n’è stata un’altra il pomeriggio del giorno dopo, nella zona ovest della città, l’Iskp rivendica: almeno “trenta fra morti e feriti”. 
 

Nel 2003, Biden aveva detto il contrario di ciò che ha detto il 16 agosto: “L’alternativa al nation-building in Afghanistan è il caos, ed è nel caos che prosperano i narcotrafficanti e i terroristi internazionali”. Al centro degli accordi di Doha, gli accordi di pace tra Stati Uniti e talebani firmati all’inizio del 2020 durante la presidenza Trump, c’era una clausola fondamentale ed era quella che prevedeva una garanzia: niente ospitalità al jihad globale. L’operazione eseguita una settimana fa dalla Cia a Kabul è la prova che i talebani hanno mentito anche su ciò che stava più a cuore agli americani, oltre che su tutto il resto (che ha a che fare con le vite degli afghani). 

 

Evacuazioni ad alto rischio

La presenza dei combattenti di Haqqani ai check point durante le evacuazioni è stata un problema: conoscevano a memoria tutte le facce degli uomini dell’ex presidente Ashraf Ghani e della dirigenza militare della Repubblica appena collassata, cioè tutti i volti di coloro che era urgente salvare. La “fazione intransigente” non ha mai accettato la regola di risparmiare i “collaborazionisti”. Gli italiani del Gis (le forze speciali dei Carabinieri), i francesi, gli inglesi e gli australiani sono usciti dal perimetro dell’aeroporto per recuperare in città i collaboratori per cui era troppo rischioso muoversi da soli attraverso i check point.
Le evacuazioni dall’aeroporto internazionale di Kabul erano cominciate il 15 agosto. L’operazione italiana Aquila Omnia parte all’alba: “Mi ha chiamato il capo di Stato maggiore della Difesa, era appena iniziato il più imponente ponte aereo umanitario mai realizzato”, dice al Foglio il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. “Nelle due settimane tra le più intense che ho mai vissuto da ministro, con i C-130J abbiamo evacuato da una Kabul ormai troppo pericolosa tutti i connazionali e quasi 5.000 afghani in pericolo di vita” (è il numero più alto tra tutti i paesi dell’Unione europea). “Non mi scordo la preoccupazione nelle ore dell’attentato dell’Iskp all’aeroporto di Kabul (il 26 agosto, sono morti 13 soldati americani e quasi 200 civili afghani) e il senso di gratitudine provato a Ciampino quando ho incontrato i militari appena tornati in Italia e ho stretto loro le mani: c’è stata una competenza e una generosità che ci fa onore”. Le condizioni per operare però erano disastrose. “E’ stato fatto tanto, più di quanto preventivato e più di quanto le condizioni sul terreno sembrassero inizialmente permettere. Per l’Italia Aquila Omnia è un legittimo orgoglio e chi era a Kabul ha fatto del suo meglio per essere all’altezza del compito non semplice che gli era stato affidato”.

  

 

Gli incursori italiani e di altri paesi della coalizione internazionale stavano cercando, fuori dai confini dell’aeroporto e anche della città di Kabul, le donne e gli uomini che avevano lavorato per anni con i nostri militari e che avrebbero rischiato la vita se si fossero spostati per il paese da soli. Intorno al 20 agosto, un comandante americano di stanza all’aeroporto internazionale Hamid Karzai li ha implorati di fermarsi: la facevano sembrare un’opzione possibile, e facevano fare brutta figura al contingente statunitense che doveva sottostare a regole di ingaggio frustranti perché incredibilmente passive (vietata la ricerca attiva di chi è sulle liste prioritarie, vietato uscire, vietato interagire direttamente con i talebani). 
 

Alcuni dei nomi su quelle liste, in cerca di un modo per raggiungere autonomamente i gate dell’aeroporto, si sono messi d’accordo con dei capi talebani: hanno consegnato le chiavi di casa e quelle della macchina oppure una borsa con centomila dollari in contanti, o entrambe le cose (come il segretario personale dell’ex presidente, Aziz Amin Ahmadzai) – e solo dopo hanno scoperto che per gli Haqqani nessuno di quei patti era valido. 

 

La grande bugia

Nella zona verde gli uomini del clan si riconoscevano subito perché erano i più nervosi e non guardavano mai in faccia le donne. C’erano le ambasciate abbandonate, le sedi delle organizzazioni internazionali deserte e all’Hotel Star, tra i giornalisti occidentali, circolava una battuta crudele ed efficace: “Joe Biden e i talebani hanno una cosa in comune: ogni sera pregano che arrivi il giorno in cui l’Afghanistan sparisce dai nostri giornali”. La terza settimana di agosto 2021 è il momento in cui – nella media di tutti i sondaggi calcolata dal sito FiveThirtyEight – la curva che misura il tasso di approvazione del presidente degli Stati Uniti e quella che misura il tasso di disapprovazione si incrociano e la seconda supera la prima (non si sono mai più invertite). Per i talebani era il momento della “grande bugia”: quello in cui la priorità non erano i burqa, ma i soldi. L’urgenza era ingannare la comunità internazionale sulle proprie intenzioni per ottenere lo scongelamento degli asset del governo – sette miliardi della Banca centrale afghana depositati alla Federal Reserve di New York e due miliardi nelle banche europee, il più grande congelamento di beni sanzionati al mondo dopo quello degli asset iraniani nel 1980. I talebani avevano chiaro che, fino a quando l’Afghanistan sarebbe rimasto al centro dell’attenzione, bisognava mentire: “chi ha collaborato con il vecchio governo – quindi con gli americani e i loro alleati – sarà risparmiato”, “le donne possono continuare a studiare e lavorare”, “l’imposizione del burqa non è un’ipotesi che prendiamo in considerazione”. Le promesse le pronunciava il portavoce Zabiullah Mujahid dal palco del grande salone circolare del ministero dell’Informazione, durante le conferenze stampa trasmesse integralmente e in diretta da Al Jazeera come dalla Bbc. Alla grande bugia hanno smesso di credere anche i più ottimisti e i meglio intenzionati quando, il 23 agosto, i talebani hanno esagerato. In un’intervista a Newsweek, l’esponente della Commissione culturale Abdul Qahar Balkhi, chiede che il governo dell’Emirato islamico venga subito riconosciuto da tutta la comunità internazionale, e sfotte: “Il pianeta ha un’opportunità unica di riconciliarsi armoniosamente (con i talebani) e affrontare insieme le sfide che riguardano l’umanità intera” che – per Balkhi – sono due, “il terrorismo” e “il cambiamento climatico”. 

 

La fine dell’occidente (non così in fretta)

A luglio 2021 il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, aveva incontrato in veste ufficiale una delegazione talebana guidata dal capo della Commissione politica Abdul Ghani Baradar a Tianjin, nel nord della Cina. Lo scopo non erano gli affari (la Cina aveva già in appalto la gestione della quasi totalità delle miniere e delle estrazioni di minerali rari), l’allegria dopo il 15 agosto non era sincera perché il disastro afghano per Russia e Cina è un pericolo che arriva tremendamente vicino (per la prima) o tocca (per la seconda) i propri confini, ma l’occasione perfetta di sottolineare il fallimento americano ed elevarlo a “fine di un’epoca” valeva ogni altra pena.

  

     

I talebani che entrano all’Agr (il palazzo presidenziale). La caduta di Kabul. I civili appesi alle ruote e alle ali degli Air Force statunitensi in fase di decollo. Il ventennale dell’11 settembre con i corrispondenti di tutte le televisioni del mondo che si collegano mostrando l’ambasciata americana ormai coperta da una gigantesca bandiera talebana alle loro spalle. 

 
Tutto questo è stato un irripetibile momento di giubilo per Vladimir Putin e Xi Jinping. Le agenzie di stampa cinesi ne approfittarono subito per ricordare all’isola di Taiwan che l’amicizia americana è a tempo e precaria, quindi meglio non fidarsi. Forse al Cremlino si è creata l’illusione che – in caso di invasione su larga scala dell’Ucraina (cominciata sei mesi dopo) – il supporto dell’occidente a Kyiv sarebbe stato debole e provvisorio. “L’occidente è stanco”: in quel momento i riferimenti alla fine dell’egemonia americana si sprecavano addensando molta nebbia su alcuni fatti. L’esercito americano rimane il più potente del mondo con distacco, la Russia e la Cina ammassano moltissime armi – in generale meno sofisticate, inserite in un quadro organizzativo meno efficiente –, ma sono a corto di alleati. L’editorialista del Financial Times John Lloyd ha messo un freno alla Schadenfreude antiamericana e al catastrofismo: “L’Unione Sovietica aveva un muro protettivo di stati gestiti dai comunisti a ovest e a nord: ora questi stati (con la parziale eccezione dell’Ungheria) sono diffidenti oppure ostili. La Cina ispira paura e non affetto nella sua regione, la sua espansione neocoloniale attraverso la Nuova via della seta ha creato progetti congiunti con stati a corto di liquidità come l’Italia e la Grecia, ma nessuno dei due paesi preferirebbe la vita in una comunità di nazioni dominata dalla Repubblica popolare al loro presente nell’Unione europea”. In sintesi: è incoraggiante, ma non è sorprendente, che i paesi abituati a vivere in un ordine democratico lo preferiscano agli altri sistemi. E questa scelta – che non viene messa in discussione davanti alle macchie e agli errori, anche imperdonabili, commessi dagli americani e degli altri paesi liberi – è la garanzia di lungo periodo della potenza dell’occidente. 
 

Gli errori è comunque meglio ricordarseli, e prendere appunti. C’è un libro che aveva anticipato il collasso afghano senza fatalismo, anatemi sulla decadenza dell’occidente e ammiccamenti alla Russia e alla Cina, “Can Intervention Work?” di Rory Stewart e Gerald Knaus. Un’analisi del 2011 su tutto quello che non stava funzionando in Afghanistan con una premessa chiara: Non si è mai trattato di una guerra impossibile da vincere e l’Afghanistan non è condannato, dalla Storia e dal destino, a soffrire per sempre – nessun paese lo è. 

 

La macchia sull’America

Il patto di Doha aveva escluso dai negoziati il governo alleato dell’Afghanistan e conteneva una serie di clausole scritte e accordi verbali segreti. Nei mesi che hanno preceduto la caduta di Kabul, gli afghani che avevano collaborato per vent’anni con il contingente Nato sono impazziti nel tentativo di capire cosa gli Stati Uniti avessero concesso al nemico e perché. All’inizio dello scorso luglio, una delegazione del governo afghano era atterrata a Washington per parlare del processo di transizione, dei termini in cui sarebbe proseguita la collaborazione una volta completato il ritiro delle truppe e del governo ad interim che avrebbe dovuto sostituire il loro. E’ stato un incontro tra due squadre ormai piene di rancori reciproci ed esauste l’una dell’atteggiamento dell’altra. Il 2 luglio un giornalista aveva fatto alcune domande a Biden sui colloqui con gli afghani e i piani per il ritiro, il presidente aveva risposto che si avvicinava una festività nazionale e non c’era motivo di parlare “di questi argomenti tristi”. Shaharzad Akbar, che faceva parte della delegazione e allora era la presidente della Commissione indipendente per i diritti umani in Afghanistan, ha raccontato di aver declinato gli inviti e aver passato la festa del 4 luglio in un hotel di Washington a piangere.

 

L’inefficienza, la cleptocrazia e le furbizie dei governi afghani (di Hamid Karzai come di Ashraf Ghani) hanno contribuito a minare la fiducia degli americani. Dall’altra parte gli accordi di Doha stretti in modo esclusivo con i talebani hanno convinto la dirigenza afghana che non soltanto gli Stati Uniti non li avrebbero più aiutati, ma che non avrebbero fatto nulla per evitare il peggio. L’ultima volta che l’ex vice presidente afghano ed ex capo dei servizi segreti Amrullah Saleh (quando Kabul è caduta, lui non è scappato) ha incontrato un consigliere militare di Biden prima del ritiro, gli ha fatto notare una cosa: “Persino le munizioni che ci avete lasciato scadono a settembre 2021”.

 
Una premessa: in vent’anni di guerra sono morti 3.590 soldati della coalizione internazionale di cui 2.465 soldati americani. In dodici anni (la missione di assistenza dell’Onu che ha documentato le perdite afghane è cominciata solo nel 2009), sono morti almeno 70.000 soldati afghani: non si può spiegare la rinuncia a difendere Kabul lo scorso agosto solo con la teoria per cui gli afghani non hanno voglia di combattere per la propria Repubblica. 
Gli accordi di Doha hanno stabilito il ritiro degli americani compresi i tecnici che si occupavano della manutenzione, senza di loro le armi lasciate in eredità alle Forze armate afghane erano sostanzialmente inutilizzabili: sono rimaste con 210 basi che non erano in grado di far funzionare autonomamente e decine di elicotteri che non potevano volare perché mancavano alcune componenti degli strumenti per i piloti. 

 
Quando è cominciato il ritiro, gli elicotteri americani sono stati messi a terra rendendo praticamente impossibile il rifornimento di munizioni, ma anche di acqua e cibo, alle basi afghane in prima linea. Appena la prima base è stata abbandonata dai soldati locali, quelli nella base accanto hanno cominciato a perdere le speranze: è iniziato un effetto domino. Quando, il 2 luglio, è stata evacuata la più importante base militare statunitense in Afghanistan, quella di Bagram, la Repubblica non era ancora collassata ma sono stati liberati cinquemila prigionieri tra talebani e altri criminali e terroristi – gli afghani si sono infuriati e hanno interpretato la mossa come un messaggio: non crediamo in voi. Saleh disse: “Decidere di andarsene è sempre legittimo, farlo in questo modo è un insulto”. In quella base sono stati abbandonati tre milioni e mezzo di oggetti che andavano dalle automobili ai visori: i militari afghani non sono stati avvertiti così, invece di essere loro a recuperarli, quando gli americani alle tre del mattino hanno spento le luci per lasciare Bagram, sono arrivati prima i saccheggiatori e hanno portato via tutto. Anche questa è sembrata una punizione, e un segnale chiaro. 

 
Dall’altra parte, il calcolo talebano era semplice: non dobbiamo far altro che aspettare. Washington aveva fissato pubblicamente la data in cui l’ultimo soldato avrebbe lasciato l’Afghanistan e non aveva preso in considerazione l’ipotesi di mantenere un piccolo contingente di 2.500 soldati per la deterrenza (come in Corea) o di rimanere vaga, in pubblico, su questa eventualità come sulla data esatta. Il ritorno dei talebani non sarebbe stato evitato e il contingente non avrebbe avuto la funzione di combattere per mantenere lo status quo, ma poteva consentire evacuazioni meno pericolose, più ordinate e complete, e rendere possibili gli scenari previsti dagli accordi di Doha, che erano ancora tutti sul tavolo prima del collasso di Kabul il 15 agosto. Le ipotesi erano un governo che includesse anche i talebani, ma non formato solo da loro, o una spartizione per cui sarebbero esiste delle provincie talebane e delle enclave, come Kabul e il Panshir, dove gli afghani avrebbero potuto continuare a vivere secondo le regole degli ultimi vent’anni. 

 

Vent’anni non si cancellano

Ahmad Naweed Kawish e Zahra Kohistani sono marito e moglie, lui ha 27 anni e lei 24, tutti e due fanno i giornalisti in Afghanistan. Ahmad ha seguito la guerra anche come reporter embedded con le truppe Nato, ma come molti non ha trovato posto sui voli delle evacuazioni. Zahra va in onda su Barya Tv indossando solo l’hijab – il velo che lascia scoperto tutto il volto, vietato in pubblico da un editto entrato in vigore il 23 maggio. Pochi giorni prima, i talebani erano tornati a casa loro, li avevano minacciati e poi avevano picchiato Ahmad. “E’ il giorno in cui abbiamo deciso di scappare”. Da due mesi sono in Pakistan, ma “con i risparmi di un afghano vivere all’estero è una missione impossibile” (lo stipendio medio di un reporter locale è cento dollari al mese). A Kapisa, la loro città, gli agricoltori hanno smesso di esporre i cocomeri, le mele e l’uva sui banchi del mercato perché nessuno se li può più permettere: le patate e le cipolle sono per gli afghani, la frutta viene venduta ai talebani che poi la esportano in Pakistan. 

 
Zahra non ha nessun ricordo del vecchio regime perché nel 2001 aveva quattro anni, oggi in Afghanistan è vietato allontanarsi più di settanta chilometri da casa senza il proprio marito o il proprio padre: “Io un marito ce l’ho, le mie coetanee sono cresciute sapendo che esisteva anche la possibilità di non sposarsi e vivere del proprio lavoro, alcune hanno scelto di vivere così e non avevano preso in considerazione l’ipotesi che potesse finire tutto” – quelle ragazze adesso sono in trappola. Zahra non ha mai creduto alle promesse pronunciate un anno fa da Zabiullah Mujahid, ma sa che la società afghana non è più quella del 1996 e che l’assenza dei talebani è durata abbastanza perché si consolidassero alcune abitudini. “Siamo troppe e, nelle zone dove non hanno il consenso, servirebbe un controllore in ogni palazzo e a ogni incrocio per far rispettare tutte le regole che ci impongono”. Tra le ragazze di Kabul e di Mazar-e Sharif ci sono ancora quelle che guidano, portano i sandali col tacco e non rispettano l’obbligo di lasciare scoperti solo gli occhi quando sono in pubblico. Le ribellioni silenziose e lo zone grigie esistono, come le scuole femminili che restano aperte nonostante il divieto deciso a marzo dal Consiglio religioso e – dove queste scuole non ci sono – alcune ragazzine si presentano in classe comunque, con i capelli corti e i vestiti da maschio. 

 

Buttare gli ultimi vent’anni come un periodo inutile sarebbe un errore d’analisi, non si tratta di un tentativo fallito, ma incompiuto. Le famiglie che oggi accettano di correre rischi per le ragazze sono molte più di prima. C’è un Afghanistan irreversibile che non si adegua al regime talebano se non in forme minime e di finzione. Ci sono molti afghani che continuano a vedere nei talebani un movimento che esiste da meno tempo dei telefoni cellulari, che in tutto ha controllato il paese (non interamente) per sei anni non consecutivi, uno stato di eccezione temporanea e non il destino naturale dell’Afghanistan. Quello lo credono gli occidentali fatalisti.

Di più su questi argomenti: