Vita da mobiki

Quanto può andare avanti Putin se nemmeno la mobilitazione funziona

Micol Flammini

La spia, i mobiki e il consigliere ucraino Mykhailo Podolyak risponde al segretario di stato maggiore americano Mark Milley. L’inverno di guerra 

Il contatto più lungo che Artem Zinchenko aveva avuto con un paese europeo era stato tra uffici di polizia, tribunali e carceri quando venne arrestato in Estonia per spionaggio. Zinchenko era un agente dell’intelligence militare russa, il Gru, e tornò nel suo paese dopo uno scambio di prigionieri. Una volta arrivato in Russia era un uomo libero, ma  ha iniziato a fare confronti, a evidenziare storture, fino al momento in cui il presidente russo, Vladimir Putin, non ha dichiarato guerra contro l’Ucraina e Zinchenko, come tanti russi, ha parte della sua famiglia nel paese invaso. C’era un’altra questione che inizialmente l’ex spia aveva fatto fatica ad accettare: l’incarcerazione dell’oppositore di Putin, Alexei Navalny, che apprezzava per la sua lotta contro la corruzione. Zinchenko ha iniziato a ricordarsi di quel paese che aveva conosciuto da bambino e lo aveva tenuto prigioniero da adulto, proprio dietro al confine. Così ha iniziato a fare piani per tornarci con tutta la sua famiglia. Scelse l’Estonia, non soltanto perché aveva trascorso nel paese parte dell’infanzia, ma perché da adulto, aveva sperimentato  la vita in un paese che rispetta i diritti anche di un prigioniero. 

 

Se fosse stato mandato a combattere in Ucraina, probabilmente Zinchenko avrebbe fatto parte di coloro che oggi si arrendono, dei mobilitati – in totale, dichiarati, sono 300 mila – che preferiscono consegnarsi all’esercito ucraino nemico,  un po’ perché si rendono conto della disparità che c’è tra loro e gli ucraini, e un po’ perché non vedono il senso di questa guerra.  Il sentimento di demoralizzazione al fronte è alto, alcuni canali Telegram che raccontano la vita dei soldati parlano di truppe armate male e ingannate. Alcuni racconti vanno però  interpretati con cautela perché dentro allo scontro tra fazioni che sostengono questa guerra c’è anche una gara a mostrare che i soldati armati dal ministero della Difesa sono meno equipaggiati e più bistrattati dei mercenari. Ma ci sono anche i soldati che disertano, alcuni che dicono agli ucraini di aver accolto con sollievo il loro arrivo.  Anche in questo caso bisogna interpretare i racconti in un contesto in cui Kyiv ha interesse che si conoscano le spaccature dentro all’esercito di Mosca e la cura che ha invece l’esercito ucraino dei suoi prigionieri.  I parenti dei mobilitati hanno  deciso di creare un Consiglio delle madri e delle mogli per denunciare come sono partiti per la guerra i loro cari, con il poco equipaggiamento a disposizione e come sono stati mandati a combattere, a volte lanciati fra le truppe d’assalto senza aver davvero l’abilità di tenere un fucile in mano. Con la prima neve, alcuni hanno fatto sapere di essere rimasti senza tende, di non avere spesso mezzi con cui spostarsi e dover affrontare chilometri a piedi. Poi ci sono le umiliazioni, le violenze, le vessazioni, le condizioni di vita che plasmeranno per sempre chi riuscirà a sopravvivere all’inverno ucraino, alla guerra e all’esercito russo. 

 

Per la prima volta dal 21 febbraio, Putin ha tenuto una riunione di persona con il Consiglio di sicurezza – l’ultima era stata per riconoscere le sedicenti repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk – con l’obiettivo di parlare di difesa interna. La paura della popolazione è che presto possa essere annunciata una seconda ondata di mobilitazione con regole ancora più stringenti e la conseguente chiusura dei confini che non permetterà  a chi ne ha le possibilità, soprattutto economiche, di scappare. Il patto di Putin con i suoi cittadini è stato già rotto, ora l’obiettivo è creare uno stato d’allarme permanente, che faccia sentire la guerra come una necessità per  garantire la sicurezza della popolazione. Il presidente russo immagina di poter tenere almeno il Donbas e la Crimea e di poter recuperare il terreno che ha perso a est ora che ha spostato i suoi uomini migliori, truppe d’élite, dalla città di Kherson alla riva sinistra del fiume Dnipro.

 

Nonostante il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ieri abbia detto che i bombardamenti che hanno lasciato circa dieci milioni di ucraini senza corrente sono il risultato della mancanza di cooperazione nei negoziati da parte di Kyiv, anche Mosca lancia segnali che non ha intenzione di arrivare alla pace ma di proseguire la guerra. I primi ad averlo capito sono i mobiki – così vengono chiamati i mobilitati – ai quali arrivano le immagini di Kherson in cui tornano i treni e riaprono i bar, che hanno visto le uniformi degli ucraini e la loro determinazione e sperimentano invece la penuria e la disorganizzazione dell’esercito russo. Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha risposto al capo di stato maggiore americano, Mark Milley, sull’idea che Kyiv non riuscirà a far finire la guerra liberando tutto il territorio: “E’ possibile una vittoria militare completa al cento per cento? Forse andrà un po’ diversamente. Per esempio, avanzeremo nelle regioni di Luhansk o Donetsk (…) e dopo inizieranno processi irreversibili nelle élite politiche russe e nella società (…) In questo modo, la guerra può finire anche prima di liberare tutto con i mezzi militari”. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.