Tra miraggi e speranze
Una passeggiata a Pristina, dove il “blu Ue” va ancora di gran moda
Le strade intitolate a Clinton, Blair, Bush e un bilancio di quel che l’occidente ha fatto per il Kosovo
In Ucraina l’occidente – al netto di comprensibili preoccupazioni energetiche e nucleari e di meno comprensibili quinte colonne che parteggiano (esplicitamente o indicando grovigli di pelose “complessità”) per le autocrazie – sta cercando di tornare al suo ruolo tardonovecentesco di difensore e garante della libertà, della democrazia e dei diritti. E allora fa uno strano effetto passeggiare per Pristina alla vigilia della chiusura (il 30 ottobre) della quattordicesima edizione di Manifesta, la biennale nomade di arte contemporanea che, dopo aver animato Palermo (2018) e Marsiglia (2020), quest’estate ha fatto tappa nella capitale kosovara.
La sensazione strana, tra il déjà vu e il viaggio nel passato, non è data solo dai gioielli architettonici jugoslavi (brutalisti e non) che, pur in stato di abbandono e circondati da un’edilizia selvaggia di impronta turco-kitsch, cercano di resistere all’abbattimento – molto aiutati in questo da Manifesta che li ha usati come splendide location. La sensazione strana viene piuttosto dalle targhe delle strade principali: il bulevardi Bill Klinton, il bulevardi Xhorxh Bush, la rruga Toni Bler (l’ex premier britannico, in una sua visita a Pristina nel 2010, fu accolto dai nove ragazzini incravattati che erano stati chiamati, in suo onore, “Toni” o “Tonibler”). E si intensifica nel Museo del Kosovo, dove, accanto ai resti archeologici e ai cimeli della guerra del 1998-99, il posto d’onore, sotto faretti malfunzionanti che hanno un’intermittenza da crisi epilettica, è dato ad alcuni oggetti (un cappello da cowboy, delle spille) appartenuti all’allora segretaria di stato americana, Madeleine Albright, e a una mimetica di Wesley Clark, il generale statunitense che comandò l’Operazione Allied Force nella guerra del Kosovo.
Nel bulevard dedicato a Bill Clinton, peraltro, c’è anche una sua statua benedicente, sotto un enorme pannello con le bandiere kosovara e americana e il faccione dell’ex presidente, il tutto sponsorizzato dalla fondazione che fa riferimento al miliardario kosovaro (ma con cittadinanza svizzera) Behgjet Pacolli, ex presidente della Repubblica (per pochi mesi) nonché ex marito di Anna Oxa.
La simpatia dei kosovari albanesi per l’occidente, che li ha aiutati a sottrarsi alla dominazione serba, e perfino per gli amerikani e per quei reietti (in occidente) di Blair e Bush, sembra pressoché intatta. E anche la spinta verso l’Unione europea: la bandiera nazionale, che è un accrocchio bruttarello di elementi e colori tipici della visual identity dei Ventisette, e l’adozione unilaterale dell’euro come divisa nazionale, sono scelte del passato. Ma l’uso ad ampio spettro delle stelle dorate e del “blu Ue” sembra andare ancora di gran moda.
E’ andato tutto dritto? No. L’economia kosovara è quella che è – e i cartelli d’appalto accanto a ogni cosa in costruzione riportano un finanziatore “altro”: l’Ue, gli Stati Uniti, la Turchia, i paesi del Golfo. Il Kosovo non è più un paese per serbi: si capisce l’animosità per gli ex dominatori ma la ritorsione non è un valore occidentale. Le macchine con targa serba che circolano per Pristina con le pecette che nascondono i simboli nazionali di Belgrado fanno un po’ impressione (come le targhe kosovare pecettate che circolano in Serbia). L’adesione all’Ue rimane un miraggio e cinque dei Ventisette, tra cui Spagna e Grecia, non riconoscono l’indipendenza kosovara. La politica è corrotta e lo stato, i cui ministeri più importanti sono ospitati in quelle che sembrano delle palazzine délabré di Albisola con i condizionatori allineati sui balconi, appare ancora molto fragile.
Epperò, Pristina e il Kosovo non sembrano in definitiva niente male. E, leggendo la frase di Clinton riportata sotto il suo monumento (“Grazie alla nostra determinazione, il XX secolo non sta terminando con una sconsolata indignazione, ma con la fiduciosa affermazione della dignità umana e dei diritti umani per il XXI secolo”), viene da pensare che l’occidente ha sbagliato molto, ma non ha sbagliato tutto.
l'editoriale dell'elefantino