il fianco scoperto

L'Ue cerca di applicare in Kosovo la lezione appresa a spese di Kyiv

Micol Flammini

Bruxelles sa che nei Balcani è forte l'influenza russa e sa che il presidente Vucic si appoggia molto a Putin, adesso cerca il modo di risolvere le tensioni tra  Belgrado e Pristina in modo tempestivo. Un deterrente c'è già

La decisione di Mosca di invadere l’Ucraina ha insegnato all’occidente che dove ci sono situazioni pericolanti e poco chiare, non si può aspettare che sia il tempo a trovare una soluzione, ma bisogna intervenire. La prima prova per questo nuovo approccio potrebbe essere lungo il confine tra Serbia e Kosovo. Il Kosovo, un tempo una provincia della Serbia, ha dichiarato la sua indipendenza nel 2008. Belgrado non l’ha mai riconosciuta e da allora minaccia  Pristina, che per le provocazioni serbe ha un sistema di risposta a tre livelli in base al quale le forze dell’ordine locali, la polizia dell’Ue e le truppe della Nato, che sono presenti nel territorio, reagiscono quando si verifica un’escalation. Mercoledì il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha incontrato i leader della Serbia e del Kosovo e ha annunciato l’intenzione dell’Alleanza atlantica, che ha circa 4.000 soldati di stanza a Pristina, di aumentare il contingente, se necessario, per stabilizzare la regione. La presenza della Nato è già un deterrente che in Ucraina mancava e sul confine tra Serbia e Kosovo, in quest’ultima crisi ha già avuto un ruolo: ha supervisionato la rimozione dei posti di blocco allestiti dai serbi del Kosovo  in  protesta contro la legge che  vieta loro l’uso di  carte di identità o targhe serbe se vogliono risiedere nel territorio di Pristina. Gli Stati Uniti hanno fatto pressione  per posticipare l’entrata in vigore della legge  al primo settembre e questi sono i giorni in cui si lavora per allentare le tensioni. 

 

Ieri Josep Borrell, l’alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Ue, ha incontrato Aleksandar Vucic, il presidente serbo, e Albin Kurti, il premier del Kosovo, e  ha concluso che “è tempo di andare avanti verso la piena normalizzazione” delle relazioni tra Belgrado e Pristina e ha chiesto flessibilità e disponibilità ai due leader. Kurti chiama Vucic il “piccolo Putin”, e il presidente serbo è tra i pochi sul continente europeo a non aver condannato l’invasione dell’Ucraina, mentre in Serbia si sono svolte manifestazioni in sostegno dell’esercito russo con cartelloni decorati di  Z, la lettere simbolo dell’attacco di Mosca.  Vucic  in questi anni ha coltivato con la Russia un ottimo rapporto, nonostante non abbia mai rinunciato alle aspirazioni di entrare in Europa. Ascolta molto Putin, i loro paesi sono vicini storicamente e ideologicamente, e ha una politica nazionalistica per ora aggressiva a parole, ma che inquieta i vicini,  proprio perché temono che Belgrado potrebbe essere sostenuta militarmente dalla Russia. Lo sforzo bellico di aprire un  fronte nei Balcani potrebbe non essere in questo momento alla portata del Cremlino. 

 

Due settimane fa, la Russia aveva diffuso la notizia dello scoppio di una guerra tra Kosovo e Serbia. Non era vero, ci sono state tensioni, posti di blocco, spari in aria, spari anche verso la barca di una pattuglia kosovara che cercava di attraversare un lago conteso, che dal 2020 è stato ribattezzato lago Trump per mettere tutti d’accordo, ma per i serbi è Gazivode e per Pristina è Ujman. La situazione è rientrata, ma per la sicurezza dell’Ue –  non tutti i paesi membri riconoscono  l’indipendenza del Kosovo– quel confine rimane un fianco scoperto. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.