le cause della tensione
Nei Balcani la guerra delle targhe è lo sfogo delle ostilità sospese
Il motivo del contendere con la Serbia risiede nelle regole di immatricolazione dei veicoli, che in passato hanno fatto litigare anche in Bosnia-Erzegovina e la Grecia con la Macedonia. Ma la radice del problema riguarda lo status del Kosovo, congelato in uno stadio ibrido e irrisolto
Il periodico riattizzarsi della guerra delle targhe in Kosovo per ora si limita al rituale riproporsi di blocchi stradali alla frontiera da parte dei serbi che vivono nella parte settentrionale del paese, a scontri con la polizia e a dichiarazioni incendiarie provenienti da Belgrado nonché da Mosca, che nello spargere zizzania nei Balcani è specialista da decenni. Ma questa volta, con il conflitto in Ucraina all’orizzonte, evoca scenari più foschi. Perché se il motivo del contendere risiede nelle regole di immatricolazione dei veicoli, la radice del problema riguarda lo status del Kosovo, che da anni è donetskianamente (o luganskianamente) congelato in uno stadio ibrido e irrisolto.
Di fatto, il paese balcanico è indipendente ma questa sua indipendenza non è riconosciuta né dalla Serbia, da cui si è staccato una quindicina di anni fa con scontri sanguinosi e con il patrocinio euro-americano, né da cinque paesi dell’Unione europea (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna), trattenuti dalla “solidarietà ortodossa” con Belgrado o dalla paura di alimentare, attraverso il riconoscimento dello stato balcanico, simmetriche volontà secessionistiche a danno del proprio territorio – e non è un caso, quindi, che neppure l’Ucraina abbia mai riconosciuto l’indipendenza kosovara.
Benché il passare del tempo e gli sforzi intermittenti della comunità internazionale abbiano contribuito a normalizzare almeno un po’ le relazioni diplomatiche tra Belgrado e Pristina, sono rimasti invece pessimi i rapporti tra i serbi che vivono nel nord del Kosovo (che per il resto è a grande maggioranza albanese) e le autorità del paese a cui non si sentono di appartenere o da cui – con qualche ragione, visto il nazionalismo albanese di cui è intrisa la politica kosovara – si sentono trattati come cittadini di serie b.
Da anni uno dei ricorrenti motivi di scontro è determinato dalle targhe delle auto: le immatricolazioni kosovare prevedono una fascetta blu sul lato sinistro con le lettere RKS, che stanno per “Repubblica del Kosovo”. Ma, dato che la Serbia non riconosce l’esistenza statale del Kosovo e non tollera quindi che circolino sul suo territorio veicoli che ostentano quella “R” di “Repubblica” sulla propria matricola, la sua polizia di frontiera obbliga chi entra in territorio serbo a sostituire la targa kosovara con una targa temporanea serba, in cambio di un obolo di pochi euro.
Per questo, in base a un accordo del 2011 poi prorogato nel 2016, le autorità di Pristina avevano concesso ai propri cittadini di poter immatricolare le macchine non solo con la targa ufficiale RKS ma anche con una formato diverso di targa, che riportava semplicemente, in mezzo ai sei numeri identificativi del veicolo, le lettere KS. L’assenza della controversa “R” di “Repubblica” consentiva così a quei veicoli di entrare in Serbia senza dover sostituire la targa. Analogamente, le autorità serbe fornivano chi volesse passare la frontiera con un documento di identità kosovaro un documento a tempo serbo.
Stufo di queste asimmetrie e spinto da focosità nazionalista uguale e contraria, il governo kosovaro ha poi deciso di applicare la reciprocità, applicando sticker sulle targhe serbe in entrata in Kosovo, per cancellare diciture e simboli araldici serbi presenti sulle matricole, pretendendo di sostituire i documenti emessi da Belgrado con fogli propri provvisori e proibendo, a partire dal primo di agosto, la circolazione delle auto con immatricolazione KS in luogo di RKS. Di lì, allo scadere della validità delle targhe KS, poi ulteriormente prorogata a settembre, ecco le barricate, gli scontri e i venti di (quasi) guerra che, con il conflitto in corso in Ucraina, hanno ripreso a soffiare con un forte odore di zolfo anche nei Balcani, in cui alcune ostilità sono più sospese che risolte.
La faccenda delle targhe ha dei precedenti nella regione. Per anni la polizia di frontiera greca ha applicato sulle targhe MK della auto macedoni che entravano in territorio ellenico un adesivo con la scritta FYROM (che stava per l’acronimo in inglese della dicitura “Ex Repubblica jugoslava di Macedonia), finché dopo 27 (ventisette!) anni di furibondo conflitto onomastico intorno al termine “Macedonia” ci si è accordati intorno alla formula “Macedonia del nord” e sulla sigla NMK che ora le auto macedoni possono sfoggiare sulle strade greche senza incorrere in rappresaglie.
E anche in Bosnia Erzegovina, dove durante la guerra degli anni Novanta si era sviluppata una giungla di immatricolazioni diverse fornite da tutte le entità statuali etnico-militari in conflitto tra loro, le trattative tra serbi, croati e bosgnacchi musulmani per decidere la foggia delle targhe del nuovo stato federale sono durate per circa un anno: i serbo-bosniaci pretendevano che nelle sequenze alfanumeriche si utilizzasse l’alfabeto cirillico, mentre i croato-bosniaci e i bosgnacchi volevano l’alfabeto latino. Alla fine, con grande sollievo dello spagnolo Carlos Westendorp, che ricopriva l’incarico di alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina istituito dagli accordi di Dayton del 1995, ci fu l’intesa di usare nelle targhe bosniache, in combinazione con dei numeri, solo le lettere A, E, O, J, K, M e T, che sono comuni all’alfabeto cirillico e a quello latino.
L’elemento più incredibile – ma anche più rassicurante – delle guerre delle targhe balcaniche è che su tutte le auto di questi paesi (kosovare, bosniache, serbe, macedoni e anche albanesi e montenegrine) le sigle nazionali sono impresse su una fascetta blu collocata a sinistra dell’immatricolazione, secondo il modello dell’Unione europea. E questo mostra come evidentemente, pur con tutti gli stop and go nei processi di allargamento da parte di Bruxelles e con tutte le lentezze dei paesi balcanici nel risolvere i problemi che impediscono loro un adesione più celere all’Ue, l’orizzonte europeo continui a essere l’unico possibile collante di una regione che rimane turbolenta come da antico stereotipo.
I conservatori inglesi