Matthew Leung/ The Chaser News/ via Afp  

In cina e non solo

La sicurezza secondo Xi è pure calci e pugni ai dissidenti

Giulia Pompili

A Manchester un manifestante di Hong Kong pestato dentro al consolato cinese. Tutto normale?

Aggiornamento delle 15 di martedì 18 ottobre. Il segretario agli Affari esteri inglese, James Cleverly, ha annunciato di aver convocato il viceambasciatore cinese a Londra dopo i fatti di domenica. “Protestare pacificamente è parte fondamentale della società britannica e del nostro modo di vivere. Tutti quelli che si trovano sul nostro territorio hanno il diritto di esprimere le loro opinioni pacificamente, senza la minaccia della violenza", ha fatto sapere Jesse Norman. 


Se si dovesse riassumere in una sola parola il discorso d’apertura del Congresso del Partito comunista cinese pronunciato dal segretario generale Xi Jinping domenica scorsa sarebbe: sicurezza. La priorità politica della Repubblica popolare cinese non è più l’economia e lo sviluppo, ma è la sicurezza del paese, che riguarda le questioni territoriali, tra cui Taiwan e la “riunificazione” con la Cina continentale, e il ruolo della potenza cinese nel mondo.


Tradotto significa: il contenimento di quello che viene considerato l’atteggiamento aggressivo e “da Guerra fredda” dell’occidente a guida americana. Ma sicurezza, per la Cina di Xi Jinping, significa anche sicurezza interna, stretta sul dissenso politico e sulle fazioni che possono mettere in pericolo la sua leadership e la centralità del Partito. Significa usare sempre più il pugno duro su tutte le questioni scivolose, controverse e tabù per Pechino. 

Per avere una rappresentazione simbolica del sistema cinese che si proietta nel mondo, basterebbe guardare a quello che è successo a Manchester, in Inghilterra, proprio domenica, lo stesso giorno in cui Xi Jinping appariva in pubblico durante il conclave di Pechino. In concomitanza con il Congresso – ma come succede spesso, negli ultimi anni, fuori dalle rappresentanze diplomatiche della Cina nel Regno Unito –  era stata organizzata una manifestazione di protesta di fronte al consolato cinese di Manchester. C’erano dei cartelli, e dei rumorosi ma pacifici manifestanti delle associazioni di Hong Kong: gran parte di loro sono gli stessi che manifestavano per le strade dell’ex colonia inglese tra il 2019 il 2020, e che erano stati costretti a una resa incondizionata il 30 giugno del 2020, quando Pechino, violando i trattati che garantivano l’autonomia all’ex colonia, ha imposto una nuova Legge sulla Sicurezza repressiva e totalitaria.

 

Quella legge è il motivo per cui attualmente ci sono decine di persone perseguitate, a Hong Kong, per motivi politici e per aver espresso il loro dissenso – tra di loro, anche il cardinale cattolico novantenne Joseph Zen. Ed è il motivo per cui almeno 123 mila cittadini di Hong Kong, da circa due anni, hanno deciso di lasciare la loro città per andare a rifugiarsi nel Regno Unito e sfuggire ai processi e alle persecuzioni. 

 


Come a Hong Kong, a un certo punto il consolato cinese di Manchester deve aver pensato che quelle proteste, domenica scorsa, fossero eccessive. Attorno alle quattro del pomeriggio alcune persone escono dalla sede diplomatica e un uomo, con la mascherina al volto, che secondo alcuni presenti sarebbe lo stesso console generale di Manchester, Zheng Xiyuan, prende a calci alcuni cartelli. Poi la scena si sposta davanti al cancello, e davanti alle telecamere degli smartphone il console  Zheng prende per i capelli uno dei leader della protesta e lo trascina, con l’aiuto di altri, dentro ai confini del consolato. A quel punto inizia il pestaggio. 
La polizia inglese è interdetta, non sa cosa fare: non può entrare senza il permesso in quello che formalmente è territorio cinese – un permesso che gli viene dato, a un certo punto, quando la lezione intimidatoria è giudicata sufficiente, dal console stesso. Tutti guardano il pestaggio, senza poter fare molto altro. Bob, com’è stato identificato il manifestante che ha pagato per tutti, viene fotografato sanguinante. 

 


L’ex leader dei conservatori Iain Duncan Smith ha chiesto delle scuse formali, il laburista Andrew Gwynne ha commentato che scene simili sarebbero inaccettabili per le strade di Hong Kong, Downing Street, presa da problemi ben diversi, ha pubblicato una nota: “Sono notizie estremamente preoccupanti”. Il governo di Liz Truss dice, in sostanza: come la polizia di fronte al consolato cinese, come l’occidente di fronte alla repressione delle proteste a Hong Kong, alla coercizione economica cinese, ai campi di lavoro nello Xinjiang, anche questa volta non abbiamo potuto far altro che guardare. E secondo gli osservatori si tratta soprattutto di un’intimidazione che ha funzionato: quando qualche giorno fa è circolata la notizia che Londra avrebbe voluto cambiare status nei rapporti con la Cina – da “rivale sistemico” a “minaccia” –  da Pechino sono arrivati messaggi minacciosi su una possibile ulteriore escalation diplomatica. E del resto l’ambasciatore cinese nel Regno Unito, Zheng Zeguang, è un amico personale del padre di Boris Johnson, Stanley Johnson, che lo scorso anno si oppose al divieto d’ingresso dell’ambasciatore nel Parlamento inglese come risposta alle sanzioni cinesi contro alcune figure istituzionali europee. In cambio, Zheng Zeguang ha autorizzato Stanley Johnson a un tour guidato nello Xinjiang. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.