Foto di Supreme leader office handout, via Ansa  

voci contrarie

La repressione iraniana sta cambiando aspetto: nel regime cresce il malcontento

Tatiana Boutourline

All'interno delle fila degli oppressori delle donne iraniane c'è chi sta cercando di cambiare rotta. La linea troppo dura delle autorità potrebbe rivelarsi inutile e nelle milizie qualcuno fa fatica a punire ragazze poco più che bambine

Dinieghi, verità alternative e repressione. Non c’è nulla di inedito nel modo in cui la Repubblica islamica sta affrontando le manifestazioni che da più di un mese stanno infiammando l’Iran. La domanda per il regime è se le solite tattiche potranno bastare a neutralizzare una protesta diversa, più frammentata, ma anche più viscerale. “Mi occupo di politica estera da molto tempo. Mi ha sbalordito quello che accade in Iran –  ha detto il presidente americano, Joe Biden alcuni giorni fa a proposito della mobilitazione partita in seguito all’assassinio di Mahsa Amini – Si tratta di qualcosa che non si quieterà prima di un lungo, lungo periodo”. 

 

È proprio questo lo scenario a cui le autorità iraniane vogliono sottrarsi e adottano “la massima soppressione” per scongiurarlo. L’obiettivo è di riportare la quiete nelle strade e impedire che un prolungamento dei disordini cristallizzi la delegittimazione del regime in un fatto compiuto. Ma a dispetto della ferocia che la dirigenza iraniana è già stata ampiamente in grado di dispiegare, non si tratta di una sfida semplice per i pretoriani dell’ayatollah Khamenei, la Guida suprema. Da più di quattro settimane le proteste deflagrano come piccoli fuochi da un angolo all’altro del paese, e ogni nuova morte scatena una nuova reazione, esacerbata dalla circostanza che le vittime sono spesso molto più giovani di quelle cadute in altre stagioni di rivolta.

 

Forse anche per questo motivo, da giorni filtrano voci che descrivono poliziotti e bassiji stanchi e demotivati, a disagio con la violenza che sono chiamati a esercitare. A oggi è improbabile ipotizzare defezioni massicce tra uomini cresciuti con l’idea che non solo il riscatto sociale ma la vita stessa sia indissolubilmente legata alle fortune della Repubblica islamica, ma in alcuni dei messaggi intercettati in chat contigue agli ambienti delle milizie si inizia a percepire una certa fatica a punire ragazze poco più che bambine. Nel frattempo, nelle strade iraniane sono comparse le mimetiche dei Saberin, l’unità scelta dei pasdaran che annovera i migliori cecchini della Repubblica islamica. “L’aspetto delle forze che incontrano i manifestanti è radicalmente cambiato”, ha raccontato su Instagram Javad Mogouei, un regista di documentari figlio di un pezzo grosso dei pasdaran e ciò nonostante in marcato dissenso con la repressione. Ferito mentre cercava di difendere una donna da una scarica di manganelli, Mogouei ha dato voce al malessere di tanti insider. “Sta diventando molto difficile, quasi impossibile giustificare certe politiche”, ha confermato al New York Times Gheis Ghoreishi, analista che in passato non ha mai avuto remore a collaborare con il regime.

 

Mentre Khamenei va avanti, testardamente, sulla linea della tolleranza zero, mentre le forze di sicurezza si riorganizzano e la propaganda addebita il dilagare della rivolta alle interferenze straniere (il generale Hossein Ashtari è arrivato al punto di affermare che “gruppi controrivoluzionari” travestiti da poliziotti hanno fatto fuoco sui manifestanti), mentre l’amico del leader supremo Sadegh Kushaki attribuisce la furia degli iraniani “alla perdita dell’identità” e il propagandista antisemita Ali Akbar Raefipour dice che è tutta colpa di internet e dell’“agitazione sessuale” scatenata dalla pandemia, nel regime cresce il malcontento di coloro che si smarcano da Khamenei e invocano una gestione diversa e più oculata della rabbia.

 

La sensazione è che l’irrigidimento determinato dall’elezione di Ebrahim Raisi non convinca una fetta dell’establishment. Il 13 ottobre sul quotidiano Jomhuri Eslami è uscito un editoriale favorevole al dialogo. “Le proteste si calmerebbero se i funzionari dello stato ascoltassero i problemi dei cittadini e rispettassero i loro diritti”. In termini simili si è espresso anche l’ayatollah Javadi Amoli: “Non c’è frusta più dolorosa della povertà”, ha sottolineato auspicando una politica più onesta e più attenta ai bisogni dei cittadini. Ancora oltre si è spinto l’ex sindaco di Teheran, Gholamhossein Karbaschi, che durante un’intervista televisiva ha detto: “Se davvero desiderano implementare la legge, allora dovranno arrestare tutte le donne, inclusa quella che mi ha sistemato il microfono”. E l’ex capo del Majlis, Ali Larijani che, sempre a proposito dell’obbligo dell’hijab ha dichiarato: “Quelli che scendono per strada sono i nostri figli. In una famiglia, se un figlio commette un crimine, si cerca di riportarlo verso la retta via, la società deve essere più tollerante”.

 

E tuttavia, quelle appena citate non sono figure apicali nell’attuale configurazione del potere e per ora nulla lascia supporre che i malumori dell’establishment possano avere la meglio sull’intransigenza di Khamenei. 


Nel frattempo ieri il Consiglio per gli affari esteri dell’Unione europea ha approvato un pacchetto di sanzioni contro Teheran. Le misure colpiranno undici persone e quattro entità responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui i bassiji e la polizia morale.

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