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il foglio del weekend

Rassegna dei terrori che imperversano nel mar Baltico

Stefano Cingolani

Dal sottomarino Belgorod al disastro di Nord Stream. Tutte le incognite che riguardano il mare conteso nella guerra tra Ucraina e Russia

Tutti lo conoscevano come  “Jon il pescatore” e lo si vedeva uscire con la barchetta a motore sfidando l’acqua color piombo e la spuma grigiastra, tornava a riva bagnato di un liquido oleoso mentre alghe putride gli scivolavano sulla giubba cerata. Portava nella sua bottega davanti al piccolo porto una cassetta di rombi, torsk (merluzzo nordico), aringhe se stagione e qualche anguilla quando passava durante il folle viaggio verso il Mar dei Sargassi. Finché i pochi abitanti di Kivik e i molti vacanzieri estivi non scoprono all’improvviso che è diventato “Jon il macellaio”. Continua a vendere qualche pesce di tanto in tanto, ma soprattutto bistecche, bei tocchi d’agnello grasso, qualche coscio di tacchino. “Come mai Jon?”, si stupiscono i clienti stagionali. “Non c’è più niente da pescare”, risponde brusco e rassegnato. E aggiunge: “L’Östersjön, il mare dell’est come lo chiamiamo noi, è morto. Troppe schifezze. Rifiuti chimici, scorie nucleari, e i sommergibili russi”. Sì, la butta là, ma per lui sono stati i russi a sterminare la fauna ittica, non adesso, ma durante tutti questi anni in cui hanno scorrazzato indisturbati per spiare e provocare, sputando i loro rifiuti verso le coste. Circolano rapporti raccapriccianti sulle sostanze tossiche, dal petrolio ai minerali radioattivi, in un mare interno che ha scarso ricambio perché tra le isole danesi le correnti atlantiche bloccano quelle del sud ovest. Le brume del Baltico da sempre hanno eccitato mille brame.

Österlen, nel sud-est della regione Scania, lungo le rive meridionali, viene considerata, con un po’ di immaginazione, la Riviera svedese per il suo clima migliore e più assolato (poche settimane, ma quelle che contano) e per un ambiente umano che i francesi chiamerebbero Bo-Bo, borghese e bohémien. Scrittori, pittori, attori e registi famosi, diplomatici, hanno costruito o comprato ampie case con vista sul mare dove trascorrono ogni momento strappato al successo, alla vita frenetica di Stoccolma, ai viaggi in giro per il mondo. La costa sabbiosa presenta ampie spiagge bianche e fresche mentre alle spalle colline tondeggianti ricordano, più che la Provenza, il sud dell’Inghilterra o il nord della Germania e della Danimarca. Lungo il bagnasciuga sorge una catena di bunker oggi vuoti, ma pronti a ospitare qualche sentinella come durante la Seconda guerra mondiale e gli anni peggiori della Guerra fredda, attenti a spiare le mosse di Ivan, il russo per antonomasia, l’eterno avversario. Guardando diritti davanti alla casa dove ho consumato molte stagioni, si può immaginare la Lituania e poco più a sud la Polonia. Amici che hanno il loro buen retiro in una delle 24 mila isole che proteggono Stoccolma, scrutano invece la perigliosa rotta verso San Pietroburgo. Controllare l’arcipelago viene considerato essenziale.

Ora ci sono i marine svedesi che, dopo la decisione di aderire all’Alleanza atlantica, operano in stretto collegamento con gli americani e i finlandesi. Hanno cominciato nell’isola di Utö, la più orientale, che i russi invasero nel lontano 1719 quando a Mosca c’era Pietro il Grande, l’idolo di Vladimir Putin. “Mandiamo alla Russia un messaggio chiaro: stiamo aumentando la nostra capacità operativa e la nostra efficacia”, dice il colonnello Adam Camel, comandante della Primo reggimento dei marine. Difendere e controllare le isole è cruciale, a cominciare dalla più grande e più militarizzata, Gotland, da dove, secondo la tradizione, sarebbero emigrati i terribili goti che sfondarono il limes romano. Danimarca, Svezia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Germania, le potenze che per secoli si sono contese il Baltico, oggi lo circondano e proteggono dalla Russia sotto l’ombrello della Nato.


Circolano rapporti raccapriccianti sulle sostanze tossiche, dal petrolio ai minerali radioattivi, in un mare interno che ha scarso ricambio


Sono in allarme anche i radical chic di Österlen. La nube di gas che s’è sprigionata la scorsa settimana dal Nord Stream è passata anche di lì. Non è molto distante l’isola di Bornholm che appartiene alla Danimarca. Ci si va spesso in estate, partendo in traghetto da Ystad, resa nota dallo scrittore Henning Mankell per le disavventure del commissario Kurt Wallander. Ci vogliono 80 minuti e ancor oggi si possono comprare alcolici senza i limiti svedesi perché i danesi sono più liberali. Ignari, i villeggianti non sapevano quale bomba passasse sotto quelle acque poco profonde. Adesso l’incanto s’è rotto, nessuno in Svezia pensa più al non allineamento che ha consentito al paese di tenere i piedi in più staffe per oltre un secolo, garantendosi la pace, ma non di restare davvero fuori dalle guerre. L’ultimo scontro armato risale al 1814 quando Jean-Baptiste Bernadotte, il generale di Napoleone incoronato re, strappò la Norvegia ai danesi. Fuori dal Primo conflitto mondiale, durante il Secondo la corona attratta dalla Germania hitleriana, e il governo socialdemocratico per ignavia, consentirono alla Wehrmacht di attraversare il paese per prendere alle spalle i norvegesi. Anche quando nell’inverno del 1939 Stalin invase la Finlandia truppe volontarie svedesi si unirono a quelle finniche, ma l’esercito se ne tenne fuori. Nel dopoguerra la Svezia ha partecipato a operazioni dell’Onu, dopo l’11 settembre 2001 un contingente venne inviato in Afghanistan, tuttavia l’opinione pubblica rimase pacifista e contraria ad aderire alla Nato. Poi è arrivato il brusco risveglio.


La svolta svedese sulla Nato è fondamentale perché il paese resta il più importante e potente dell’area baltica sul piano industriale e militare


La svolta svedese è fondamentale perché non c’è dubbio che il paese resti il più importante e più potente dell’intera area baltica sul piano industriale e militare. La Polonia è più popolosa, ma meno sviluppata. Gli altri sono anche più ricchi come la Danimarca, ma non hanno la stessa taglia né potenza di fuoco. La Svezia, del resto, è stata per secoli una potenza imperiale che ha esercitato proprio nel “mediterraneo del nord” la sua egemonia. In un buon terzo della Finlandia si parla svedese. La Norvegia è indipendente solo dal 1905. Quando Gustav Vasa conquistò la corona nel 1523 e poi aderì al luteranesimo, le truppe svedesi divennero il nerbo degli eserciti protestanti fino al 1648 con la pace di Westfalia. La dinastia Vasa mantenne il proprio dominio sulle sponde meridionali del Baltico ingaggiando un conflitto continuo con Mosca. E dire che furono gli svedesi a far nascere il ducato di Kyiv che secondo Putin sarebbe l’antenato della grande madre russa. Per un paradosso della storia, Rus’ è come le popolazioni slave insediatesi lungo il Dnieper chiamavano quei giganti biondi che scendevano da nord con le loro agili navi armati di asce, lunghe spade e scudi di legno per difendere i mercanti che scambiavano pellicce con grano.

I romani non sono mai arrivati sulle rive del Baltico, anche se Plinio il Vecchio parlava di Baltia, l’isola leggendaria circondata da un mare conosciuto come Suebicum (di qui Svezia) del quale scrisse Tacito in Agricola e Germania. In una mostra archeologica anni fa a Malmö, la principale città della Scania, le tracce di Roma erano soprattutto monete d’argento acquisite scambiando ambra, pellicce e capelli biondi delle donne molto apprezzati per le parrucche delle matrone. Niente elmi, né pugnali, né gladi. Sono stati i “giochi degli scambi” a portare benessere e civiltà non appena i predoni vichinghi che dominarono il nord dal 700 al 1.100 dopo Cristo si trasformarono in mercanti. Buona parte del Medioevo fu dominato dalle leghe tra le città libere fiorite sotto il lasco Impero romano-germanico. La Hansabund, la più potente, univa le Fiandre, la Germania settentrionale, parte della Scandinavia, con accordi commerciali e talvolta anche militari. Kalmar nel sud-est della Svezia, dove nel 1397 venne firmata l’Unione con la Norvegia durata fino al 1520, era il punto di partenza verso le terre concesse dall’imperatore Federico II ai Cavalieri teutonici tornati dalle crociate, uno stato monastico che dall’attuale Prussia orientale arrivava fino alla Livonia e all’Estonia, dove s’affacciava con sempre maggior pretesa il Principato di Mosca. La vittoria di Aleksandr Nevskij, signore di Novgorod, nel 1242 contro i teutoni, i danesi e i livoniani nella “battaglia del lago ghiacciato” – ricostruita in modo magistrale da Sergej Ejzenštejn (nato a Riga sul Baltico) nel suo film del 1938 – aveva stabilito un equilibrio più o meno instabile, infranto da Ivan IV detto il Terribile, il primo a farsi chiamare zar e a proclamare Mosca “la Terza Roma”, erede di Costantinopoli. Tuttavia nemmeno lui riuscì ad aprire un porto russo a occidente. Le scarse navi restavano ancorate ad Arcangelo sul Mar Bianco, bloccate dal gelo molti mesi l’anno; per far rotta verso l’Europa dovevano attraversare il mar di Barents e l’oceano Artico. Ancor oggi è la principale base navale, anche militare, da lì fa la spola il terribile sottomarino nucleare Belgorod che può raggiungere il Baltico attraverso il canale costruito nel 1933. 


Nemmeno Ivan il Terribile riuscì ad aprire un porto russo a occidente. Le sue scarse navi restavano ancorate ad Arcangelo sul mar Bianco


Lo sbocco al mare si deve a Pietro il Grande. Appassionato di navi, fu lui a costruire (talvolta con le proprie mani, munito di ascia che maneggiava con forza e maestria) la prima flotta russa e con la campagna di Azov contro i tatari conquistò un avamposto verso la Crimea e il mar Nero. L’espansionismo pietrino allarmò il regno di Polonia e il granducato di Lituania che comprendeva buona parte dell’Ucraina divisa tra gli Asburgo, il Khanato di Crimea, i polacchi e lituani. Tornato in patria dopo i suoi viaggi nell’Europa nord occidentale che lo portarono fino in Inghilterra, e consolidato il potere grazie ad alcuni orrendi bagni di sangue, Pietro si lanciò nella campagna per strappare alla Svezia il controllo dell’Östersjön. Furono vent’anni di battaglie con girandole di alleanze che coinvolsero anche l’impero ottomano. La Grande guerra del nord, come viene conosciuta, si concluse nel 1721, la Russia ottenne l’Ingria svedese, l’Estonia svedese, la Livonia e parte della Carelia; in cambio versò due milioni di riksdaler, il tallero reale, moneta ufficiale prima di adottare la corona nel 1873, e rinunciò alla Finlandia, tranne alcuni territori attorno a San Pietroburgo che dal 1712 era intanto divenuta capitale. Ma Stoccolma e Mosca resteranno sempre nemiche. Per la potenza svedese cominciò una fase di arretramento sotto la pressione prussiana della dinastia Hohenzollern e dei russi in particolare sotto la zarina Caterina.

Preparando la rivoluzione, Lenin stazionava tra Stoccolma e Helsinki dove riceveva le borse colme di marchi che gli portava Stalin, frutto delle rapine e dei ricatti a Baku, la città petrolifera nella quale operava mettendo sotto tiro di volta in volta le raffinerie dei Rothschild e dei Nobel. Durante la guerra fredda, la Svezia divenne il luogo degli incontri diplomatici e degli incroci di spie seconda solo a Berlino e testa a testa con Vienna. Mentre l’intera sponda sud del Baltico era parte integrante dell’Unione sovietica che, con i regimi fantoccio della Polonia e della Germania est, aveva allungato le sue grinfie fin nel cuore dell’Europa. La liberazione nel 1991 fu violenta e sanguinosa. Conviene ricordarla perché il dibattito pubblico in Italia, sui media e nei caffè di Montecitorio, sembra non conoscerla o averla dimenticato. Così come sorvola sullo scandaloso caso di Kaliningrad. Perché è stato lasciato un cuneo nucleare tra Polonia e Lituania? Sulla base di una composizione etnica imposta dai russi che dal 1945 in poi hanno cancellato non solo i tedeschi, ma anche i polacchi, i lituani, gli ebrei che da secoli popolavano Königsberg? L’occidente corrotto e predatore contro il quale si scaglia Mad Vlad, chiuse un occhio così come osservò preoccupato, ma lontano, quel che accadeva nei Paesi baltici. 


L’ultimo soldato russo lasciò la Lettonia nel ’99. Putin, da tre mesi primo ministro, assisteva alla “peggiore tragedia geopolitica della storia”


Il 23 agosto 1989, quando ancora il muro di Berlino non era caduto, circa due milioni di persone, un quarto dell’intera popolazione di quelle che venivano chiamare repubbliche socialiste sovietiche, formarono una catena umana ininterrotta lunga seicento chilometri, partendo da Tallinn in Estonia, collegandosi con Riga in Lettonia e arrivando fino a Vilnius in Lituania. Con la Via Baltica, come venne chiamata, quei popoli lanciavano un grido di libertà cinquant’anni dopo il patto Ribbentrop-Molotov che li aveva gettati sotto il tallone sovietico. Chiedevano una indipendenza quanto meno economica, quella politica maturò l’anno successivo. Nel febbraio 1990, le elezioni legislative sovietiche in Lituania portarono al potere con una maggioranza di due terzi i nazionalisti sostenuti da Sajudis (“Movimento”), l’organizzazione indipendentista fondata da Vytautas Landsbergis. L’11 marzo, il Soviet supremo lituano dichiarò l’indipendenza, il 17 aprile i russi bloccarono il paese. Il 12 maggio i dirigenti politici delle tre repubbliche firmarono una dichiarazione congiunta nota come Intesa baltica. Mosca avviò i negoziati a condizione di congelare le dichiarazioni di indipendenza. Di fronte al rifiuto, la Russia rispose come suo solito: inviando le truppe. Scoppiarono rivolte ovunque, in quello che venne chiamato il massacro di Vilnius tra l’11 e il 13 gennaio 14 manifestanti furono uccisi e 140 feriti. Alla fine, i carri armati lasciarono la città. Quando poi il 21 agosto l’ala dura del morente Partito comunista tentò un golpe a Mosca, gli estoni proclamarono l’indipendenza. Poco dopo i paracadutisti sovietici si calarono sulla torre televisiva di Tallinn. Ma lo stesso giorno anche il Parlamento lettone votò per l’indipendenza, ormai la catena umana del 1989 era diventata un’onda inarrestabile. Il 27 agosto la Comunità europea accolse con favore il ripristino della sovranità degli stati baltici. L’Unione sovietica riconobbe il fatto compiuto il 6 settembre 1991, ma  le truppe russe rimasero ancora: in Estonia se ne andarono dopo la rinuncia al controllo delle strutture nucleari a Paldiski il 26 settembre 1995, in Lettonia l’ultimo soldato lasciò lo Skrunda-1, la base militare sovietica, nell’ottobre 1999, segnando così la fine simbolica della presenza militare russa. Vladimir Putin, da tre mesi primo ministro, assistette impotente alla “peggiore tragedia geopolitica della storia”, meditando la rivincita. E i Paesi baltici chiesero di aderire alla Nato. Solo dei mentecatti possono oggi trattarli da provocatori, dopo che per 55 anni erano stati dominati, russificati, cancellati dal concerto delle nazioni. Eppure i mentecatti non mancano mai.
 

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