Alexander Dugin (LaPresse) 

ieri Stalin, oggi Putin

Dugin, il “nazista di sinistra”, e la gara a chi è più nazionalista in Russia

Siegmund Ginzberg

È riuscito a “vendersi” a Mosca e nel mondo come “teorico” del putinismo, e, al tempo stesso, aggregatore e sostenitore della assoluta compatibilità del “fascismo alla russa” col “comunismo alla russa”

Un uomo si mette le mani nei capelli di fronte all’auto in fiamme in cui una bomba ha appena fatto a pezzi sua figlia. “Le prima parola che ha pronunciato, che noi le avevamo insegnato è stata Russia, il nostro Stato, la nostra Nazione, il nostro Impero”, dice al suo funerale. “Non aveva paura, è morta per il nostro popolo”, uccisa da quei “nazisti” di ucraini (che lei definiva “subumani”). Curioso che la più veemente denuncia russa del “nazismo” ucraino venga da chi ha sistematicamente sdoganato il nazismo Doc. Aleksandr Dugin non usa eufemismi, prudenza nella scelta delle parole. Viviamo in tempi in cui nessuno gradisce che gli si dia del fascista o del nazista. “Fascista” è una parolaccia che si riserva volentieri al dirimpettaio. Anche chi rivendicava con orgoglio radici e origini da quelle parti, ora preferisce dirsi “conservatore”. Dugin è un’eccezione. Lui non si è limitato a propugnare negli anni quello che è stato definito un “neofascismo alla russa”. Si è adoperato continuamente nella ricerca di compatibilità ideologiche tra il nazionalismo ultrà russo e quelli che riteneva affini. 

 

Dugin non ha mai nascosto il proprio entusiasmo per il “nazismo di sinistra”, antioccidentale e anticapitalista, anzi a suo giudizio “filo-russo”, dei fratelli Strasser e del capo delle SA Ernst Röhm, e addirittura per la fazione a suo dire “filo-russa” in seno alle SS. Anche Alfred Rosenberg, il principale ideologo del nazismo razzista, e Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler, sarebbero stati “buoni amici della Russia”. La sua prima apparizione televisiva, negli anni 90, era in un programma in cui si esaltava il “misticismo” eurasiatico della ricerca da parte dei nazisti della culla della civiltà “ariana” in Scandinavia e in Tibet. Non c’è bislacca teoria che Dugin non abbia via via sposato, a partire dall’idea che la storia mondiale sarebbe una scontro tra fautori dell’Eurasia, cioè di un’Europa a guida russa e l’Atlantismo a guida americana. 

 

Non c’è residuato, scampolo di ideologia di estrema destra che non abbia frequentato, sposato e adattato alle caratteristiche russe. Dal Julius Evola che rivendicava “un fascismo più radicale, più intrepido, un fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura, impermeabile a ogni compromesso”, all’antisemitismo viscerale, al misticismo religioso, alla “migrantofobia”, alla difesa della morale minacciata dagli omosessuali, dalla decadenza e dalla corruzione occidentali, alla glorificazione della guerra come strumento di “rigenerazione”. 
“L’ideale euroasiatico è la persona forte, sana, bella, appassionata, pronta ad assumere le proprie responsabilità e compiere azioni eroiche, pronta ad affrontare le sfide e a vincere in nome dell’amore, della propria famiglia, dell’impegno religioso. […] il nostro ideale è la salute fisica e morale, la forza, il valore, la fedeltà e l’onore”. Dugin dixit, anzi scripsit. Non so se al lettore fischiano le orecchie. A me sì, fino a far male. 

 

Caduta l’Urss, Dugin aveva fondato, assieme a Limonov, il Partito nazional-bolscevico. Tutto un programma già nel nome. Sin dagli anni 90, ha incontrato tutti gli esponenti intellettuali e politici che riteneva congeniali, dall’apostolo della “nuova destra” francese Alain de Benoist, all’ex collaborazionista belga Jean Thiriart, al nostrano filosofo “rossobrunista” Diego Fusaro. Thiriart, già combattente nelle Waffen-SS, e per questo condannato come collaborazionista, negli anni 80 si era distinto come fautore di un’alleanza euro-sovietica. “Con Mosca contro Washington”. 
 
Ha il pallino della “geopolitica”. Sull’onda di un’interpretazione – a dire il vero un po’ maccheronica -  delle teorie del Nomos della Terra di Carl Schmitt, vede il mondo diviso tra potenze di terra e potenze marittime. Sostiene che la Russia dovrebbe allearsi con la Germania e l’Europa contro la “talassocrazia” americana e britannica. Il suo sogno è un nuovo Asse Roma-Berlino-Tokyo, magari con Pechino al posto di Tokyo, più tutti quelli che ci stanno: la Turchia di Erdogan, l’Iran ariano, l’India nazionalista indù di Modi, e – perché no? – il Brasile di Bolsonaro. La cosa che più gli piace di Stalin è la sua alleanza con Hitler, il Patto Molotov-von Ribbentrop. 

 

Nell’Europa degli anni 30 c’era una sorta di “Internazionale fascista”. Qualche anno fa si era fatto un gran parlare di Europa “dei sovranismi”, con modello l’Ungheria di Viktor Orbán. Ora fa più fino prospettare un’Internazionale “conservatrice”. Si sono inventati persino un fascismo dalle “mani pulite”, non corrotte e non insanguinate, un ircocervo, un animale mitico e inesistente, così come lo era a suo tempo il “socialismo dal volto umano”. E pazienza se i possibili alleati non sono proprio campioni della democrazia. Dugin ha coltivato i rapporti con il Rassemblement national della Le Pen, e con la Lega di Salvini (Savoini gli aveva organizzato un incontro-intervista a Mosca). Ma anche quelli con Bannon e la destra americana. Ha avuto anche di recente parole di apprezzamento per il “realismo” di Trump. Non vede l’ora che alla Casa Bianca torni un isolazionista, un sovranista che si fa i fatti dell’America, anziché un “globalista” che si impiccia di continenti che non sono il suo.  

 

La sua posizione sulla guerra in Ucraina è netta: “La partecipazione all’Operazione militare speciale è un’impresa eroica in una guerra santa… Contro di noi c’è l’Occidente; contro di noi c’è il diavolo”. Al materialismo storico fa posto il cospirazionismo storico. La Russia sarebbe vittima di un complotto mondiale guidato dall’America. Così come Hitler era convinto che ci fosse una cospirazione concertata tra “Ebraismo mondiale”, Bolscevismo e Grandi Banchieri, per distruggere la Germania, la sua economia, minare la forza e la purezza del “popolo tedesco”, anzi “sterminarlo”. Esempio eccellente di come lo sterminatore si fa passare da minacciato di sterminio e l’aggressore da aggredito. Per Hitler, si sa, gli istigatori della guerra erano gli Ebrei. Per Dugin, l’anima nera del complotto contro la Russia, il finanziatore delle rivolte per la democrazia all’Est, l’uomo che ha inventato Zelensky è sempre un ebreo: il finanziere George Soros – “usuraio”, ebbe a definirlo Giorgia Meloni. 

 

Non è chiaro sino a che punto Dugin sia l’ideologo preferito di Putin. Uno studio molto serio e documentato del professore di Affari internazionali della George Washington University, Marlene Laurelle (Russian Nationalism: Imaginaries, Doctrines, and Political Battlefields, Routledge Series on Russian and East European Studies, 2020), dal quale abbiamo mutuato tutto quel che precede sulla carriera ideologica di Dugin, sostiene che no, che sarebbe un personaggio marginale. “Contrariamente a quel che credono gli esperti occidentali, che lo considerano ‘il guru di Putin’, Dugin ha poco accesso ai più alti gradi dell’amministrazione presidenziale. Non fa parte di nessuna delle istituzioni principali del Cremlino”. 
Non è un politico. La Laruelle lo definisce piuttosto un “imprenditore di dottrina”. Dugin è riuscito a “vendersi” in Russia e nel mondo come “teorico” del putinismo, e, al tempo stesso, aggregatore, sostenitore della assoluta compatibilità del “fascismo alla russa” col “comunismo alla russa”. E’ riuscito a rivolgersi a audience diverse. E a vendersi soprattutto come autore di testi scolastici, manuali di storia.

 

Lo storico supremo in Russia è niente meno che Putin in persona. Il controllo assoluto sulla Storia è stata la sua preoccupazione principale durante tutta la sua esperienza al potere. Così come una delle preoccupazioni principali di Stalin era riscrivere e aggiornare personalmente il suo Breve corso di storia del Partito comunista (bolscevico) dell’Urss. Poutine historien en chef è il titolo di un pamphlet di Nicolas Werth, fresco di stampa per Gallimard, in cui si spiega il rapporto che c’è tra la riscrittura e l’unificazione dei manuali di storia, la creazione della commissione “Antifalsificazione della Storia” affidata a Sergej Naryškin, poi dal 2016 capo dei servizi esteri (quello che durante la riunione che precede il lancio dell’Operazione speciale impallidisce e balbetta quando Putin lo prede in castagna), la “revisione” della storia di Russia e Ucraina, la glorificazione della Buona guerra contro il nazi-fascismo (dimenticando che quella guerra la Russia la vinse perché era alleata del deprecato Occidente), e, infine, lo scioglimento forzoso di Memorial, l’associazione che teneva vivo il ricordo delle vittime della repressione staliniana e, cosa ancora più imperdonabile, si opponeva all’annessione di Crimea e Donbas.

 

Niente di nuovo. La storia, come aveva intuito George Orwell in 1984, è il terreno più infido, molto più incerto del futuro. Ogni dinastia imperiale cinese ha sempre riscritto la storia delle dinastie precedenti. Compresa l’ultima, quella di Mao, che l’ha riscritta a ogni svolta, a ogni successione, sia pure in seno alla stessa dinastia. Succede nelle migliori famiglie autoritarie, persino nelle democrazie. Gli zar non potevano essere da meno. Dugin è un opinionista organico, che spesso assume posizioni “più zariste dello Zar”.  Putin sinora glie l’ha fatta passare liscia, anche quando Dugin si era messo a rimproverargli di non avere abbastanza determinazione da condurre sino in fondo, sino alle estreme conseguenze, la guerra all’ingerenza dell’Occidente in Ucraina. 

 

Potrebbe diventare imbarazzante per Putin qualora questi decidesse di porre fine alla guerra e tornare a cercare un modus vivendi con l’Europa e gli Stati Uniti. Ci sono pollai in cui è inammissibile la presenza di più galli. Per anche meno nel 1933 Hitler aveva fatto ammazzare dalle sue SS, nella Notte dei lunghi coltelli, i rivali interni, Röhm e l’ala ultrà del movimento nazista. Stalin ne avrebbe poi fatto tesoro, facendo qualcosa di simile. Aveva eliminato i concorrenti di destra e di sinistra (il “blocco dei destri e dei trockisti”), decapitato i vertici del Partito e quelli dell’Armata rossa. Le grandi purghe degli anni 30 erano scattate come reazione all’attentato a Kirov, il segretario di Leningrado, da molti visto come suo possibile successore. E’ ormai assodato che a dare l’ordine fu lo stesso Stalin.

 

I servizi segreti agiscono nell’ombra, per definizione. Una delle numerose teorie del complotto che vengono riprese e ampliate da Dugin è quella di Jean Parvulescu, un autore romeno esiliato in Francia, e vicino all’ultradestra. Sarebbe stato lui a fornirgli un misterioso rapporto intitolato: La Galassia Gru, la Missione segreta di Mikhail Gorbacov, l’Urss e il futuro del Grande continente euroasiatico. L’intera storia dell’Unione Sovietica sarebbe percorsa da un conflitto sotterraneo tra il Gru, i servizi di intelligence militare, propugnatori di un “ordine eurasiatico”, ispirato a Lenin e a Stalin, e i propugnatori di un “ordine atlantico”, insomma di una convivenza pacifica con l’Europa e l’Occidente, rappresentati dal Kgb e dai suoi successori, da Chrušchëv, Brežnev, Andropov, ecc. Non è chiaro da che parte si collochi, in base a questa strampalata teoria, Vladimir Putin, né da chi debba guardarsi.

 

La parte più avvincente dello studio di Marlene Laruelle sul nazionalismo russo è la molteplicità delle sue sfaccettature. Di cui la versione di Dugin è infinitesimale. Molto più inquietante è la gara al rilancio tra chi si presenta più nazionalista e sciovinista del vicino. Medvedev, che passava per moderato, e che certamente aspira alla successione a Putin, fa di tutto per presentarsi più violento di Putin. Navalny, l’oppositore che è in galera, il principale esponente dei Nats-dem (Nazional-democratici), si guarda bene dal sostenere l’indipendenza dell’Ucraina, così come a suo tempo se l’era presa con la “peste” e gli “scarafaggi” ceceni, da estirpare con ferro e fuoco.

 

Farneticazioni complottiste a parte, le guerre perse sono micidiali per le autocrazie. La guerra vinta contro Napoleone aveva rinvigorito il potere assoluto degli Zar. Quella persa in Crimea, contro l’Europa alleata al Sultano, aveva forzato una stagione di riforme e costretto a liberare i servi della gleba. La disfatta nella guerra russo-giapponese aveva portato alla Rivoluzione del 1905, prova generale delle rivoluzioni del 1917, nel bel mezzo della Grande guerra. Al disastro in Afghanistan era seguita la Perestrojka, e poi la fine dell’Urss. Non sappiamo ancora come andrà a finire in Ucraina. Presumibilmente non bene per Putin se dovesse perderla. I colonnelli greci non erano sopravvissuti a un disastroso scontro per Cipro con la Turchia, la dittatura dei generali argentini era crollata dopo la batosta alle Falkland. 

 

Buone notizie, forse. Ma anche pessime. Significa che Putin non può permettersi di perdere la guerra contro l’Ucraina. La tentazione potrebbe essere quella di giocare il tutto per tutto. 

 

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