Ritorno alla luna

Il programma Artemis è bellissimo, ma l'America rischia di perdere la nuova Corsa allo spazio

Giulia Pompili

Cina e Russia hanno un vantaggio: una pianificazione centrale, militare, che nulla ha a che fare con il budget di un paese democratico. L’Amministrazione Biden deve affrontare il tasso d’inflazione più alto degli ultimi quarant’anni e allo stesso tempo spiegare ai cittadini quanto sia importante il costosissimo programma spaziale americano

Il razzo lanciatore Space launch system è già sulla rampa di lancio del Kennedy Space Center, in Florida, e tra meno di una settimana potrebbe portare in orbita la navicella Orion, dando il via ufficialmente alla missione Artemis 1. E’ l’attesissimo ritorno del programma spaziale americano, che ha come obiettivo il ritorno dell’uomo sulla luna entro tre anni e per la prima volta sin dal 1972, ma non solo. Dopo il primo lancio senza equipaggio – previsto il 29 agosto prossimo, ma potrebbe essere rimandato al 2 o al 5 settembre –  se tutto funzionerà, gli astronauti della Nasa osserveranno il suolo lunare da vicino e studieranno un modo per costruire una base che permetta l’esplorazione dello spazio profondo e, infine, una missione umana su Marte. La prima missione di un essere umano su un altro pianeta. 


Al di là delle attese dal punto di vista scientifico, Artemis rappresenta soprattutto il ritorno del ruolo americano centrale nell’esplorazione spaziale. Il sogno spaziale americano che si fonda sulle parole pronunciate dal presidente Kennedy durante il celebre discorso del 1961, quando decise di mandare l’uomo sulla luna “perché è una sfida che siamo disposti ad accettare”, una competizione che un paese intero era convinto di poter vincere contro le altre grandi potenze concorrenti. Era un messaggio più politico che scientifico, e allora l’America fu vittoriosa. 


Adesso l’America vuole tornare sulla luna dopo anni in cui il suo programma spaziale era stato accantonato, depotenziato e definanziato. Ufficialmente i motivi trainanti hanno a che fare con la tecnologia, con la spinta innovatrice delle società private come Space X, la ricerca di nuove importanti risorse naturali, per esempio sul suolo lunare. Ma in realtà c’entra la politica internazionale e, più di recente, la guerra in Ucraina. Solo che è difficile da ammettere perché dire che è in ballo una competizione vorrebbe dire che gli schemi della Guerra fredda, che sembravano definitivamente abbandonati, sono tornati quasi tutti.


Per decenni, dopo la fine della Corsa allo spazio e ancora di più dieci anni dopo, con il crollo dell’Unione sovietica, la Russia è stata accolta nella cooperazione internazionale spaziale perché la priorità di certi programmi non era più la politica o la Difesa, ma la ricerca scientifica e il business. Poi il ricordo della Corsa allo spazio è tornato a farsi sentire quando la Cina è emersa come la nuova potenza da battere: come per i sovietici, il programma spaziale di Pechino si fonde con quello della Difesa, e nel 2019, quando è arrivato sulla luna il primo rover cinese ed è stato svelato il progetto di una base lunare permanente, tutto è cambiato anche nelle priorità delle politiche spaziali americane. A gennaio, poco prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Pechino e Mosca hanno annunciato che alla base lunare ci lavoreranno insieme, e sarà pronta entro il 2035 – un lavoro di cooperazione che andrà avanti parallelamente a quello della costruzione della nuova Stazione spaziale cinese. 


Cina e Russia in questo settore hanno un vantaggio: hanno una pianificazione centrale, militare, che nulla ha a che fare con il budget di un paese democratico. L’Amministrazione Biden deve affrontare il tasso d’inflazione più alto degli ultimi quarant’anni e allo stesso tempo spiegare ai cittadini quanto sia importante il costosissimo programma spaziale americano. Che ha pure un problema strutturale, perché è stato messo in piedi troppo in fretta e non ha una vera leadership e degli obiettivi chiari: solo da poco la Nasa “si sta affrettando a creare un’unica struttura di gestione” per i programmi spaziali, ha scritto Bryan Bender su Politico la scorsa settimana. I progetti della Nasa sono diversi e complessi, e molti addetti ai lavori dicono che manca un approccio organizzativo per gestire le diverse missioni e la collaborazione con l’industria privata. 

 

Che la politica internazionale sia centrale anche in Artemis lo dimostra il fatto che la partecipazione italiana al programma americano sia arrivata subito dopo la firma della Via della Seta tra l’Italia e la Cina: per il governo americano era un modo per compensare le eventuali commesse che l’Italia avrebbe perso con Pechino (e infatti diverse aziende di settore italiane hanno partecipato alla realizzazione di alcuni componenti del modulo di servizio di Orion, ma è soprattutto la torinese Argotec a emergere: suo infatti è l’Argomoon, il microsatellite che andrà in orbita lunare). Ma in un report presentato a gennaio all’amministratore della Nasa Bill Nelson dall’Aerospace Safety Advisory Panel – l’organismo di controllo della sicurezza dell’Agenzia – si legge che la struttura confusa dei nuovi programmi spaziali americani rischia di confondere pure i dipendenti, gli appaltatori, e di conseguenza anche i partner e le agenzie internazionali che collaborano con la Nasa. Tutti problemi di leadership e di sicurezza che dall’altra parte, in Cina e in Russia, di certo non hanno. Lunga e impervia è la strada per arrivare primi nella nuova Corsa allo spazio. 
 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.