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Le pretese scientifiche (e fallaci) della geopolitica

Adriano Sofri

Un dibattito fra Carlo Ginzburg e Franco Moretti. La storia, la letteratura e la “svolta quantitativa” e qualche idea in parallelo

C’è stato un dibattito, al Salone del Libro, fra Carlo Ginzburg e Franco Moretti, e i rispettivi libri: “La lettera uccide” (Adelphi) e “Falso movimento” (nottetempo). Sentire Ginzburg è sempre un piacere, e Moretti, chissà perché, non l’avevo sentito mai, e l’avevo letto solo più di un quarto di secolo fa, al tempo di “Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine”, forse perché mi era sembrato esauriente. Cosicché ero rimasto a digiuno della “svolta quantitativa nello studio della letteratura”, che dà il sottotitolo a questo ultimo libro. Sono stato fortunato, perché mi è capitata addosso, con una densa ricapitolazione della svolta quantitativa, la sua liquidazione da parte di Moretti, che ne era stato promotore e portabandiera. Un colpo di scena, accentuato dal fatto che a Moretti toccavano due parti in commedia. La prima, di obiettare a Carlo Ginzburg e alla sua predilezione “microstorica” per i “casi”, gli episodi singolari e “anomali”, capaci tuttavia di rivelare attraverso l’anomalia una trama di relazioni, opinioni, immaginazioni, altrimenti sfuggente alla regolarità. Modello originario e il più famoso, il mugnaio friulano del ‘500 Menocchio che sapeva leggere scrivere e ricavare dalle scritture una sua cosmologia calcata sul formaggio e i vermi. La seconda parte: nel momento stesso in cui contrapponeva alla “passione per l’anomalia” di Ginzburg il proprio lungo metodo di ricerca “quantitativo”, di dichiararne il fallimento.

Immagino, per chi fosse ignaro come me della questione, di dover brevemente definire in che cosa consista lo studio “quantitativo” della letteratura, opposto all’ermeneutica, alla tradizionale interpretazione critica del singolo testo esemplare. Il singolo testo, anche quando sia un capolavoro riconosciuto di un autore classico, è inadeguato a offrire un panorama della temperie letteraria di un’epoca, come fa invece la ricognizione statistica delle migliaia e decine e centinaia di migliaia di testi ordinari e inosservati se non nei depositi delle grandi biblioteche. “Le discipline umanistiche sono state prese completamente alla sprovvista dalla comparsa degli archivi digitali e dei metodi di analisi computazionali...”. Citerò l’esempio dello stesso Moretti, che ha considerato 7.000 titoli di romanzi inglesi e ha osservato che tra il 1790 e il 1850 risulta “una chiara, regolare predilezione per il titolo di sei parole”. “E chi se ne frega!”, sbotteranno i miei piccoli lettori, dunque devo metterli in guardia. Si rischia di reagire come gli spettatori ingenui di una mostra di arte contemporanea, meglio prendere un’aria assorta. Ma una pagina dopo provvede Moretti stesso a procurare un respiro di sollievo: “Intorno al 1800 la lunghezza media dei titoli era di sei parole. Bene. E allora? Ne sappiamo qualcosa di più, su come funzionavano quei titoli? No…”. Più esattamente: “No, a meno di riuscire a costruire un ponte dalle frequenze alle forme”. Ma anche questo è un falso movimento: “Non dirò di altri; ma io non ci sono riuscito di certo. Non solo non avevo idea del perché il titolo di sei parole avesse funzionato così bene per così tanto tempo; in realtà, non pensavo neanche che ci fosse niente da capire, lì”. 

Si capisce che uno che si sbarazza di un curriculum prestigioso di storico e critico della letteratura, si mette alla testa della “svolta quantitativa” delle digital humanities, l’informatica umanistica, fonda un laboratorio (2010) che fa scuola nella reverenda università di Stanford, impiega vent’anni in ricerche seriali e collettive sterminate, “undici studi quantitativi di ampie dimensioni”, – e arriva a comunicare questo bilancio senza condizionale: è un gran bel tipo. E non fatevi tentare dall’idea che si tratti di un burlone – come certi artisti contemporanei, che fanno il record d’asta e un momento dopo vi fanno cucù. Qui si faceva sul serio. Qualche recensione benintenzionata al volumetto “Falso movimento” attribuisce all’autore il proposito illeso di trovare il ponte fra ermeneutica e metodo quantitativo, ma non è così: il verdetto è radicale. “Non è riuscita, questa cosa… Non ci abbiamo nemmeno provato. La pratica ha ammazzato la teoria”. Anzi, sembra di capire che la teoria mancasse fin dall’inizio, e che dall’inizio sia stata sostituita dal miraggio della messe di libri pagine frasi parole che finalmente diventava possibile contare e confrontare con la parola chiave e incrociare all’infinito… 

Ero così attratto che ho cercato qualche aggancio nella rete. C’è un’intervista famosa di John Sutherland a Moretti del 2006. E qual è il prossimo passo? – gli chiede. “Il tentativo di combinare le due cose. Una storia della letteratura che operi su una materia molto più vasta… Enorme. E proprio perché è così enorme, abbiamo bisogno di modelli intellettuali che siano l’esatto opposto – snelli, eleganti, diagrammatici, sintetici – e questo è ciò che le scienze naturali e le scienze sociali stanno cercando di fare da decenni, e in alcuni casi da secoli. E non ci siamo riusciti. Lavoriamo ancora con il modello interpretativo e un grande libro alla volta. Dobbiamo trovare un modo per combinare l’individuo che legge una singola opera con grandi sforzi e visioni collettive… Difficile, certo. E non sono sicuro che riusciremo a fare tutto. Ma che cosa posso dire? I compiti impegnativi sono ciò per cui viviamo”. 

C’è un altro intervento su Moretti: “Che cos’è la lettura a distanza”. E’ sul New Yorker del giugno 2011, cinque anni dopo, dunque: ci si aspetterebbe, quanto agli obiettivi e ai risultati, un maggiore scetticismo. Invece l’autrice, Kathrin Schulz (giornalista, scrittrice, Pulitzer nel 2016), recensisce due saggi recenti di Moretti e, a proposito dei troppi “libri che non si può fare a meno di leggere”, annuncia: “Franco Moretti ha una soluzione: non leggeteli”. E precisa: Moretti non è un autore satirico. E non è nemmeno un nome nella proliferante categoria delle digital humanities, lui va oltre. E invoca la “lettura a distanza”: la comprensione della letteratura non attraverso lo studio di testi particolari, ma aggregando e analizzando enormi quantità di dati… Per capire la letteratura, dice, dobbiamo smettere di leggere libri. Schulz commenta spiritosamente: “Ho vacillato fra due reazioni: ‘Huh?’ e ‘Duh!’…”. E continua: lo stesso Moretti, in fondo a un saggio che contiene 54 diagrammi, “riconosce che le cose non sono andate come previsto. E che a un certo punto ‘è passato dalla quantificazione all’analisi qualitativa della trama’. Ammiro la sua onestà: la maggior parte degli studiosi non pubblica risultati negativi. Ma lo ammirerei di più se non liquidasse altrove l’analisi letteraria qualitativa come ‘un esercizio teologico’. (Moretti non aderisce al pluralismo analitico-letterario: ha suggerito che la lettura a distanza dovrebbe soppiantare, non integrare, la lettura ravvicinata). Il contrappunto alla teologia è la scienza e, leggendo Moretti, è impossibile non accorgersi che sta battendosi per lo status di scienziato. Si presenta ora come il Linneo della letteratura (tassonomizzando un nuovo vasto patrimonio di dati), ora come Vesalio (esponendone lo scheletro essenziale), ora come Galileo (svelando e riordinando l’universo dei libri), ora come Darwin (cercando ‘una legge di evoluzione letteraria’)”.

Si direbbe dunque che io e gli altri uditori del dibattito torinese siamo arrivati nel momento in cui l’onesta palinodia si è completata (l’eventualità di un mio fraintendimento resta forte). Non so valutare la riserva che Moretti adduce alla possibilità – altrui, non sua, a questo punto – di ripristinare un’immaginazione teorica alla quale improntare la ricerca quantitativa, impedendo che diventi inerte e fine a se stessa. A occhio, avrei diffidato della passione morettiana per il metodo scientifico ed evolutivo applicato alla letteratura, forse per una resistenza confusamente crociana, certo per la convinzione dei disastri politici compiuti lungo “l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”. Già allora la promozione del marxismo, e della politica e della rivoluzione, al rango di scienza, volle sostenersi sulla lezione di Darwin. “Anni dopo – scrive Moretti ricostruendo il proprio percorso – si capì che i grandi numeri non funzionano allo stesso modo in ambito economico-sociale e in ambito culturale”.   

E vorrei venire a una ragione più eccitante di interesse per l’incontro, amichevole e generoso, fra Moretti e Ginzburg. Il fatto è che ci trovo un’assonanza forte con l’attuale confronto tra la geopolitica e la politica internazionale. La geopolitica, nella versione più rudimentale e prevalente, ambisce a uno statuto scientifico, fondato sulla geografia, il territorio, la lunga durata, la tipicità, e dunque la prevedibilità dei fenomeni (quel Braudel delle regolarità e delle costanti, come la catasta di libri non letti, per le quali gli eventi sono incidenti inessenziali, cui la microstoria si ribella). 

La geopolitica così popolarmente intesa si fa forte dell’attualità. Non importa che manchi previsioni decisive come l’invasione russa dell’Ucraina – che l’abbia esclusa fino a un minuto prima. Un minuto dopo, la ripetizione di un modello – l’impero russo e il “Russkij Mir”, dallo zarismo all’Urss alla Russia di Putin – interviene a spiegare la cosa e la sua inesorabilità. Ma è solo una faccia della medaglia, e anche l’altra faccia è vistosamente in mostra, quella degli eventi e dei passanti che li provocano, il goffo ufficiale del Kgb Vladimir Putin e l’eventualità che la mano gli tremi per il Parkinson e che lo si umilii, lui che da piccolo fronteggiò il suo topo. O l’attor comico Zelensky, promosso a primattore di un confronto armato fra asiatismo e occidente. Per questa vulgata geopolitica la guerra per procura è un tic superfluo, dal momento che tutti gli attori, grandi e piccoli, agiscono per procura, delegati del destino geopolitico. 

In Italia la cosa è più caratteristica, perché ha preso la forma di una rivalità risentita fra i titolari di mercato della geopolitica, Limes (che oggi ha le sue scissioni e concorrenze), e l’università, i cattedratici e le cattedratiche di politica internazionale, relazioni internazionali, diritto internazionale e così via, carichi di un prestigio accademico frustrato dalla mancata popolarità. Limes mette su la sua scuola, e così anche l’ultimo terreno, dell’abilitazione ufficiale, cede sotto il terreno dei professori. (Anche Moretti, per il suo ambito, annota che “al posto di un dialogo critico, è sorta una nuova piccola signoria accademica”). Se volete farvi un’idea della cosa guardate (è in rete) la tavola rotonda svolta al Sant’Anna di Pisa lo scorso gennaio – dunque in tempo di pace – sul tema: “L’Italia e la geopolitica”, aperto da un pamphlet vivamente polemico di Andrea Ruggeri, docente a Oxford. 

Imputata di realismo, determinismo, cinismo – sotto la veste elegante dello scetticismo – la geopolitica venera gli Stati e disprezza le organizzazioni internazionali e il diritto, le scelte politiche della classe dirigente e dei singoli (il Cameron che inventò per mera meschinità un’irrealissima Brexit)… Discorso lungo, naturalmente. In Italia, dove la geopolitica si è mangiata la politica internazionale, ci sono degli antidoti. Non è il mio mestiere, ma farò due nomi decisivi: quello di Antonio Cassese (1937-2011), dei suoi scritti, del suo insegnamento e del suo operato per la giustizia internazionale, e quello di Luigi Ferrajoli. Quest’ultimo ha pubblicato da poco il suo lavoro più appassionato, “Per una Costituzione della terra” (Feltrinelli). Ne riparleremo. Scritto nell’intervallo fra il cedimento della pandemia e l’avvento della guerra nel centro d’Europa, può essere letto come un testo esemplare dell’utopia di cui i fatti ridono. “Certamente questo progetto può apparire inverosimile. Com’è possibile che un simile patto costituente possa essere condiviso da 196 stati sovrani e da quei nuovi sovrani responsabili e invisibili nei quali si sono trasformati i mercati?… Il linguaggio giuridico, non dimentichiamo, ha sempre un ruolo potentemente per formativo del senso comune. La qualificazione normativa dei crimini di sistema dovrebbe comportare l’istituzione di una o più giurisdizioni internazionali con il potere di accertarli insieme alle colpe politiche. Per esempio, una giurisdizione internazionale in tema di aggressioni all’ambiente, un’altra sulla fame nel mondo e le malattie curabili ma non curate, un’altra ancora sui milioni di morti provocati ogni anno dall’uso e perciò dalla produzione e dal commercio di armi da fuoco… Entrerà in vigore, quale costituzione della terra, il trentesimo giorno successivo alla data del deposito, presso il segretario generale dell’organizzazione delle Nazioni unite, del trentesimo strumento di ratifica o di adesione”.

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