Ricostruzione è una parola tabù per i russi

Micol Flammini

Gli ucraini hanno ricevuto l'ordine di ritirarsi da Severodonetsk, che si aggiunge al novero dei territori distrutti dalla guerra. La Russia recluta lavoratori, cittadini e politici da spedire nel Donbas devastato

Le truppe ucraine hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi da Severodonetsk, la città più importante dell’oblast di Luhansk, nel Donbas. I russi avanzano, bombardano e, ha detto il governatore di Luhansk, Serghiy  Gaidai, “rimanere in posizioni che sono state distrutte  non ha senso”. La ritirata era stata già prevista e non per questo viene presa con meno serietà, Kyiv lascia a Mosca la città ma non permette ai soldati russi di circondare le sue truppe. I soldati ucraini hanno rallentato l’avanzata della Russia, ma rimanere non ha  un valore strategico: Severodonetsk è devastata. Gli ucraini dicono che se ne stanno andando per riorganizzarsi, ma nel frattempo il Cremlino  dovrà incaricarsi di raccogliere le macerie, rimettere in piedi la distruzione ed è questo uno degli argomenti meno affrontati a Mosca.

 

Per capire quanto difficile sia per la Russia parlare di ricostruzione è utile incominciare da una bufala: il 12 giugno sul sito del giornale governativo  Izvestia era apparso un articolo firmato da Sergei Kirienko, ex primo ministro molto  vicino al presidente Putin. Nell’editoriale   Kirienko affermava che tutta la Russia dovrà contribuire alla ricostruzione del Donbas “distrutto dai nazisti” a spese di trilioni di rubli presi dalle tasche dei contribuenti “anche a costo di un temporaneo declino del tenore di vita russo”. L’articolo è scomparso  e Kirienko afferma di non averlo mai scritto. Potrebbe essersi trattato di un hackeraggio progettato da oppositori di Kirienko che volevano mettere in luce  il fatto che invadere e conquistare costa, ricostruire costa ancora di più.  Le zone che Mosca è riuscita a occupare sono per lo più devastate, nel Donbas in modo particolare, e se il Cremlino vuole evitare che la resistenza partigiana si faccia ancora più caparbia non può lasciare i cittadini rimasti a vivere tra le macerie: i territori conquistati saranno sempre di più il biglietto da visita dell’“operazione speciale”, vanno tirati su, ma serve il denaro.

 

Mosca inizia a fare i primi piani  e le autorità hanno lanciato una campagna per reclutare lavoratori essenziali per la ricostruzione e lo fanno cercando nelle aree più povere della Russia, dove spesso ci sono anche i cittadini più patriottici. Sui siti di annunci per chi cerca lavoro vengono pubblicate occasioni per muratori, metalmeccanici, ma anche insegnanti, con promesse di stipendi superiori alla media. Gli annunci vengono da società private che offrono opportunità di lavoro nel Donbas e a chi risponde viene chiesto di sottoporsi a un colloquio condotto dall’Fsb, il Servizio di sicurezza federale russo. Nessun annuncio menziona risarcimenti in caso di infortuni, né fa presente che, per quanto le aree siano sotto il controllo russo, sono comunque zone di guerra in cui gli ucraini potrebbero organizzare una controffensiva. Per ora Mosca non ha stanziato un budget per la ricostruzione, ha soltanto sottolineato che la responsabilità della devastazione è dei “nazisti ucraini”. 
Mosca pianifica un referendum nelle zone occupate, che potrebbe tenersi l’11 settembre, ma sta cercando anche di attrarre cittadini russi per riempire quelle che sono ormai zone fantasma dell’Ucraina: gran parte degli ucraini, per quanto russofoni, sono scappati. Mancano i soldi, mancano i lavoratori e mancano anche i politici: nelle sedicenti repubbliche  di Donetsk e Luhansk sono stati nominati politici russi provenienti anche dalla Siberia. Basta mettere in fila questi elementi per capire che l’Ucraina separatista è una landa  deserta che ha poco a che fare con le volontà dei cittadini russofoni e molto con i progetti  di Mosca. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.