Un manifesto elettorale dello Sinn Fein per le strade di Belfast (foto Ap)

L'unione delle due Irlande non è più così remota

Gregorio Sorgi

Oggi si vota nel Nord e il Sinn Féin sembra forte. Il post Brexit qui è un caos

Londra. Boris Johnson ha tanti altri pensieri per la testa, ma l’esito delle elezioni in Irlanda del nord potrebbe aprire un nuovo fronte per Downing Street. I sondaggi attribuiscono un vantaggio di otto punti al partito repubblicano e filo irlandese Sinn Féin, che per la prima volta potrebbe prendere più voti del Democratic Unionist Party (Dup) sconvolgendo il sottile equilibrio politico nella regione. L’Irlanda del nord è ancora divisa tra cattolici e protestanti che si sono fatti la guerra per oltre trent’anni. Gli Accordi del Venerdì Santo del 1998 hanno creato un sistema consociativo: il primo ministro e il suo vice devono provenire da entrambe le comunità. In teoria, i poteri sono quasi gli stessi e per prendere ogni decisione politica serve il consenso di entrambi. Ma in pratica la carica di primo ministro ha un grande valore simbolico, e gli unionisti temono che questo ruolo venga occupato dai loro acerrimi rivali.
 
A febbraio il premier del Dup Paul Givan si è dimesso – facendo cadere il governo – come gesto di protesta verso il Protocollo sull’Irlanda del nord, una sezione dell’accordo di recesso sulla Brexit che reintroduce i controlli doganali tra l’Ulster e il resto del Regno Unito. Per gli oltranzisti unionisti questa è una minaccia esistenziale. Il Dup credeva che le dimissioni gli avrebbero fatto guadagnare voti e indotto il governo di Londra a sospendere il Protocollo, come chiedono da tempo. Ma la scommessa è fallita. Il Dup viene dato al 18 per cento e rischia di finire al terzo posto dietro al partito centrista Alliance, che riscuote consensi da entrambe le comunità. Qualunque sia l’esito delle urne, il leader del Dup Jeffrey Donaldson ha detto che il suo partito non tornerà al governo finché non verrà risolta la questione del Protocollo. Il deputato del Dup Ian Paisley Jr. – figlio dello storico e omonimo leader unionista – ha chiarito in un incontro con la stampa estera che il loro veto non ha nulla a che fare con la possibilità di avere un primo ministro di Sinn Féin, come sospettano in molti, ma dipende interamente dalle regole post Brexit.
 
Guardando avanti, il grande incubo della comunità unionista è la riunificazione tra le due Irlande, uno scenario sempre meno improbabile. Questa è la missione esistenziale di Sinn Féin, che però in campagna elettorale si è dato un tono più moderato e ha parlato molto del caro vita, evitando il tema dell’unione con Dublino. Eppure il Sunday Times ha rivelato nel weekend che la leader di Sinn Féin Michelle O’ Neill ha scritto una lettera al partito Saoradh – che secondo molti è il braccio politico della New Ira, un’organizzazione paramilitare coinvolta nell’omicidio della giornalista Lyra McKee nel 2019 – chiedendo di elaborare una strategia comune per l’unificazione. Il fronte filo britannico è insorto, accusando i repubblicani di collaborare con chi “è tutt’ora coinvolto negli omicidi nelle nostre strade”.

Ian Paisley Jr. prevede che “se Sinn Féin dovesse prendere un voto in più inizierà a chiedere un referendum un’ora dopo la chiusura delle urne, e questa richiesta verrebbe sostenuta da Biden e dall’Europa”. Il deputato del Dup teme che “resteremo prigionieri di questo dibattito per decenni”, considerando che la Repubblica d’Irlanda andrà alle urne nel 2025 e Sinn Féin potrebbe vincere anche lì. L’Irlanda del nord diventerà la nuova Scozia?

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