Questa è anche una guerra dell'acqua

Giulio Boccaletti

La prevalenza dell’agricoltura. Una storia che scorre lungo il Dnepr, un fiume che spezza a metà l’Ucraina, e che si basa su una contrapposizione storica con gli Stati Uniti. Appunti per una nuova geopolitica

La situazione in Ucraina rimane irrisolta. Comunque finisca questo conflitto, lascerà un ordine geopolitico profondamente trasformato, opera di un uomo solo, apparentemente deciso a giustificare le proprie azioni con una sua versione distorta della storia. 

   
Il lungo discorso di Putin del 21 febbraio – quello che, con il riconoscimento delle sedicenti repubbliche separatiste, ha di fatto inaugurato questo conflitto – non rivela solo un etno-nazionalismo che accomuna il presidente russo a molti autocrati moderni, ma propone una lettura del conflitto come conseguenza inevitabile di una contrapposizione con l’occidente, frutto di una serie di errori fatti durante l’era sovietica. Errori che, a detta di Putin, hanno tradito l’eredità imperiale russa.  

  
Come storico, Putin lascia molto a desiderare: l’impressione è di un dilettante che non ama la complessità. Emerge però una tesi quasi mistica, l’idea di un destino di grandezza russa avversato, a suo dire, dagli Stati Uniti. In questa sua narrazione, la Nato è un ostacolo alla realizzazione di questo immaginato destino storico, non il vero motore del suo agire. 

  
Questa è una storia che scorre lungo il Dnepr, un fiume che spezza la nazione contesa quasi esattamente a metà, attraversando le pianure ucraine per raggiungere il Mar Nero. Si basa su una contrapposizione storica con gli Stati Uniti, ma non su base strettamente politica, bensì come risultato di una competizione economica di sistemi geofisici con radici nel Diciannovesimo secolo.

  
La competizione con il colosso statunitense ha ossessionato i governanti russi, da quando il primo si è affermato come prima potenza agraria al mondo, superando di gran lunga la capacità del secondo, nonostante la maggiore estensione del paese. La competizione si origina da un accidente geografico. Il 40 per cento del territorio statunitense si trova nel bacino del sistema fluviale Missouri-Mississippi. Questo straordinario fiume ospita il più grande sistema di canalizzazione del mondo, che coincide con il suo territorio più produttivo. Una straordinaria congruenza di sole, fertilità, e logistica. Quasi un miracolo. 
Grazie a questo patrimonio naturale – ancora oggi il bacino ha una capacità produttiva che potrebbe sostenere quattro volte la popolazione del paese – con coste su due oceani che offrono più porti naturali di tutti gli altri paesi del mondo messi assieme, gli Stati Uniti hanno goduto di un vantaggio strategico enorme, quasi quello di un “impero inevitabile”, una dicitura comune tra gli analisti di geopolitica di qualche anno fa. 

  
La Russia, invece, non fu mai così fortunata in nessuna delle sue configurazioni. Il paese è straordinariamente vasto, ricco di acqua e terra, ma la loro distribuzione relativa ne rende difficile lo sfruttamento. Il paese è molto più a nord di quanto non siano gli Stati Uniti. Un terzo del suo territorio è coperto da permafrost, una zona permanente di ghiaccio e terra congelata, inospitale per l’agricoltura. Solo più a sud è possibile coltivare. 

  
Il problema è che quelli a sud sono territori aridi – le grandi steppe dell’Asia centrale e della Russia meridionale. Solo l’un per cento del territorio riceve più di settecento millimetri di pioggia annuali, il quaranta per cento circa 400 millimetri. Il resto molto meno. In queste condizioni la maggioranza delle coltivazioni hanno bisogno di irrigazione. Ma con l’eccezione del Volga, l’ottanta per cento delle acque russe scorrono in grandi fiumi che versano nel mare artico, non verso sud, dove servirebbe l’acqua.  

  
Nella concezione imperiale che Putin ha della Russia, però, si distingue una geografia ottocentesca, nella quale c’è un’importante eccezione a questa storia: l’Ucraina. Tagliata a metà dal fiume Dnepr, l’Ucraina è un paese fertile, con accessi portuali sul Mar Nero. La straordinaria quantità di chernozem (un terreno ricco di materiale organico e straordinariamente fertile, di cui il paese ha un quarto delle riserve mondiali) e il sistema fluviale che attraversa quelle terre e ne permette l’irrigazione, costituiscono di fatto un’infrastruttura naturale perfetta per la produzione e il trasporto di cereali. 

 
L’Ucraina è, in senso agricolo, una piccola America, la chiave per la competizione secolare tra i due paesi. L’Ucraina fa della Russia una potenza agricola planetaria. Ma solo a patto che non goda, al contrario di ciò che stipulò Lenin, di alcun diritto all’autodeterminazione. L’Ucraina è una chiave della potenza russa, a patto di esserne parte integrante, di esistere al suo servizio.

 
E’ rarissimo che la geografia finisca per essere la causa scatenante dei conflitti. Serve sempre la responsabilità di persone, l’arbitrio delle loro decisioni, e l’immaginazione di una nazione o, come in questo caso, la fantasia di un singolo despota e dei suoi associati. Immaginazione e fantasia sono in grado di tradurre condizioni geografiche in un destino. Nel caso di Putin questa interpretazione ha radici profonde e conseguenze planetarie. 

 

La Crimea è una delle origini di questo conflitto. La penisola, che Krushchev passò all’Ucraina nel 1954, dipende per la propria irrigazione da un canale lungo 400 chilometri, che trasferisce acqua proprio dal fiume Dnepr ai campi della Crimea. Dopo l’invasione russa del 2014, gli Ucraini chiusero quel rubinetto, bloccando con una diga l’afflusso per otto anni, lasciando la Crimea a secco. A febbraio, uno dei primi atti dell’invasione russa è stato proprio quello di ripristinare il funzionamento di quel canale. 

 
Questa struttura idraulica è il lascito della trasformazione sovietica di questa regione per diventare un paniere del mondo, uno sforzo ispirato da ciò che il veterano bolscevico Vyacheslav Molotov bollò, con scetticismo, “gigantomania”. I piani quinquennali di Stalin impressero un’accelerazione impressionante a questa trasformazione, con risultati per lo più disastrosi. Stalin immaginava un’agricoltura meccanizzata, di larga scala, potenziata dal trattore moderno, e organizzata in grandi complessi agro-industriali, che spingesse la produzione sovietica a raggiungere quella americana.

 
Ma questa visione si scontrò con la necessità di mantenere il controllo autoritario sul paese. L’acqua divenne la principale leva coercitiva verso le repubbliche periferiche come l’Ucraina, sopprimendo qualsiasi ambizione di modernizzazione. Lavori forzati e violenza ridussero la produttività. L’esproprio della produzione agricola causò carestie. Fu un disastro. La Duma stessa riconobbe la morte di almeno sette milioni di persone, di cui almeno tre nella sola Ucraina. L’eredità pesante di una malcelata ambizione globale.

 
Le cose presero una piega folle dopo la Seconda guerra mondiale. Stalin volle accelerare ulteriormente la produzione di cotone e cereali per finanziare lo sviluppo dell’industria pesante. Seguirono anni in cui l’ossessione del dittatore portò alla costruzione di infrastrutture idrauliche gigantesche, descritte bene da Alexander Solgenitsyn nel suo “Arcipelago Gulag”.  

 
In particolare, Stalin favorì la produzione di cotone – un ingrediente fondamentale non solo per il settore tessile ma anche per la produzione di esplosivi – drenando risorse dal resto del settore agricolo. Tra il 1946 e il 1954, la produzione di cotone aumentò del 170 per cento, mentre quella dei cereali rimase ferma e, intorno al 1952, cominciò a calare. 

 
Fu in questo periodo che si susseguirono investimenti nelle infrastrutture idriche dell’Ucraina, in particolare il canale del nord della Crimea, che facevano parte dei cosiddetti “grandi progetti di costruzione del comunismo”. Con la morte di Stalin, Khrushchev abbandonò la collettivizzazione, ma continuò ad espandere l’agricoltura e le sue infrastrutture, arando e irrigando sempre più terre. Lo stesso fece Breznev. 

 
Gli sforzi per ingegnerizzare il paesaggio divennero sempre più surreali. Un esempio tra tutti: il Politburo decise che non avesse senso che i fiumi del nord della Russia scorressero verso l’Artico, quando c’era bisogno di tutta quell’acqua a sud; evidentemente la natura aveva fatto un errore. E così decisero di deviare i fiumi che scorrevano a nord, verso sud. Più le condizioni idriche dell’Ucraina e di altri stati meridionali peggioravano, più i piani diventavano fantasiosi. Dopo la caduta del Muro si è scoperto che una delle proposte era di detonare un ordigno nucleare per cercare di modificare i fiumi artici. Una follia, fortunatamente mai perseguita. 

 
Gli investimenti in bonifiche e strutture irrigue furono tra i più grandi investimenti dell’Unione Sovietica. La speranza era quella di raggiungere gli Stati Uniti, utilizzando grandi produzioni agricole per finanziare l’industrializzazione del paese. Il problema però rimase la produttività. Su ogni ettaro la quantità di raccolto rimase ostinatamente bassa. E così, lo stato continuò a mangiare sempre più terra, a cercare sempre nuovi domini dove espandere la propria agricoltura irrigua. Tra il 1970 e 1985 le terre bonificate crebbero da dieci a quindici milioni di ettari, e le zone irrigate da dodici a venti. Nonostante ciò, la produzione totale di grano rimase stabile a circa duecento milioni di tonnellate all’anno. 

 
Non c’era verso: il progetto del grande impero agricolo russo non riusciva a decollare. 

 

Quasi due anni dopo l’invasione della Crimea, Putin tenne un discorso all’Assemblea federale russa. A quel punto, Putin era al suo terzo mandato presidenziale. Il 3 dicembre 2015 passò le enormi porte dorate della Sala di San Giorgio al Cremlino per annunciare che “l’anno scorso, gli export agricoli ammontarono a 20 miliardi di dollari.” Più di quanto il paese avesse esportato in armamenti. Questo successo era stato desiderato a lungo.

  
I cereali sono la parte più importante della filiera del cibo umano, il venti per cento del quale dipende dal grano. Molti paesi in via di sviluppo importano grano, sovvenzionandone il consumo per proteggere la popolazione dalla variazione di prezzi sui mercati internazionali. E’ il caso di Tunisia e Egitto, dove nel tempo si è creato uno stretto legame tra finanza pubblica, sicurezza alimentare, e stabilità sociale. Essere un esportatore dominante, quindi, non era solo una questione economica. Significava avere peso geopolitico. 

  
Il ritorno della Russia come potenza agricola metteva Putin di nuovo in condizioni di perseguire un vecchio sogno. In una eco delle fantasie pericolose del periodo sovietico, nel suo discorso del 2015 disse che “soprattutto, abbiamo risorse d’acqua”. In teoria, quelle risorse avrebbero permesso di mettere in uso milioni di ettari di terra ancora incolti da quando era crollata l’Unione Sovietica. Putin descrisse investimenti pesanti in tutte le filiere produttive per spingere il paese verso la totale indipendenza alimentare, cosicché i russi siano “in grado di nutrirci dalla nostra terra.” 

 
Il conflitto innescato da Putin ha quindi radici profonde nella terra e nell’acqua dell’Ucraina. E’ un conflitto tragico, ingiustificabile, che nasce da una lettura distorta di ciò che la Russia sia stata e da una visione irrealistica di ciò che può essere. Ma l’inadeguatezza dell’economia russa non ci deve illudere che le conseguenze di questo conflitto non saranno globali, non solo per l’impatto che avrà sull’architettura delle istituzioni internazionali, il rapporto che l’occidente avrà con la Cina, o i rischi legati ai deterrenti nucleari, ma anche per le implicazioni che avrà sulla stabilità sociale di tutti quei paesi – e sono tanti – nei quali il grano è il fondamento della sopravvivenza. 

 
Gli eventi planetari del 2010 ci hanno dato un esperimento naturale di ciò che può succedere quando la produzione di grano ucraino e russo viene compromessa. L’ondata di caldo e siccità di quell’anno, una delle peggiori in mezzo millennio, coincise con le zone produttrici dell’est Europa e dell’Asia centrale. Il caldo fu seguito da incendi. Un milione di ettari andò in fumo. Alla fine, furono persi un terzo del raccolto russo e un quinto di quello ucraino. Questi eventi – di piccola portata se confrontati con il conflitto di oggi – ebbero effetti devastanti. 

 
Il solo spettro di una produzione ridotta, spinse gli speculatori a tenersi strette le proprie riserve, mentre il panico si diffuse tra gli acquirenti che cercarono di accaparrarsi tutto ciò che potevano sul mercato. A metà agosto il governo russo intervenne, rilasciando parte delle proprie riserve e vietando l’esportazione di cereali per mettere in sicurezza le forniture domestiche. I prezzi, naturalmente, schizzarono alle stelle. In luglio il grano costava circa 180 dollari alla tonnellata. In agosto, era salito a 250 dollari. In novembre, la siccità raggiunse la Cina. Temendo un collasso delle proprie riserve, Pechino comprò enormi quantità di grano sui mercati. Le conseguenze furono economicamente letali: a febbraio 2011 i prezzi raggiunsero i 350 dollari alla tonnellata, il doppio di giugno. 

 
Gli aumenti di prezzo accompagnarono sconvolgimenti politici nei paesi importatori del medio oriente e nord Africa. Per calmierare i prezzi al consumo, quei governi dovettero mettere sotto pressione le proprie finanze. Poi, il 19 dicembre 2010, il ventiseienne Mohamed Bouazizi si diede fuoco di fronte al palazzo del governatore provinciale di Sidi Bouzid, in Tunisia, facendo partire la miccia della Primavera araba. Nelle successive settimane, uno alla volta, i governi della regione furono investiti da rivolte popolari. Le rivolte erano alimentate da un desiderio di riforma politica, ma il progressivo fallimento del sistema alimentare si rivelò essere un combustibile potente. In questa vicenda, la geopolitica si rivelò sorprendentemente sensibile ai prezzi del grano, legando eventi idrici e meteorologici, stabilità sociale, e migrazione. Ci si può immaginare quali rischi ponga il conflitto tra Ucraina e Russia, che insieme rappresentano un terzo della produzione di grano del mondo. 

 
Il conflitto in Ucraina ha radici profonde, scavate nelle acque e terre fertili che portano al mar Nero, alimentate dalle fantasie imperiali di un despota isolato. Da un punto di vista della sicurezza alimentare, forse il rischio di lungo periodo più grave è che il conflitto spinga la Russia a diventare il granaio cinese, cambiando in modo fondamentale i rapporti di forza nei commerci globali, e accelerando quel processo di separazione tra le economie dell’occidente e dell’oriente già in atto. Nel breve termine, il rischio è la fame di coloro che dipendono, per la loro sopravvivenza, dalle filiere alimentari che là si originano.

  

Giulio Boccaletti, PhD, è esperto di sicurezza ambientale e risorse naturali, e l’autore di “Acqua: una biografia” (Mondadori).

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