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Cosa chiede adesso l'Ucraina ai suoi alleati occidentali

Micol Flammini

Mentre le ambasciate si svuotano, gli ucraini rimangono soli al fronte, sentono la Russia sempre più vicina, confidano che le loro armi e il loro territorio riusciranno a fermare l'invasione. Zelensky dice che non cederà, sarebbe un suicidio. Le richieste di Kiev agli Stati Uniti: garanzie, sicurezza e revisione di vecchi trattati

 L’Ucraina ieri ha atteso che la Russia rivelasse alcuni dettagli sul riconoscimento dell’indipendenza di Donetsk e Luhansk  perché da quei dettagli dipendono molte cose. Il ministero degli Esteri di Mosca ha detto che le due sedicenti repubbliche popolari esistono fino ai confini attuali. Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, aveva detto che la Russia le riconosce  in tutto il loro territorio, anche quello che reclamano. L’accordo di cooperazione che è stato firmato tra la Russia e le due finte repubbliche e ratificato ieri dai parlamentari parla di riconoscimento degli stati esistenti, ma è stato Vladimir Putin a dissipare i dubbi e visto che continua a mostrare quanto sia disposto alla guerra ha detto che dopo aver riconosciuto queste repubbliche, la Russia ne ha riconosciuto anche la Costituzione dove sono indicati i confini che vanno ben oltre il territorio recentemente occupato.

 

I separatisti occupano soltanto un terzo delle due province, la parte restante è sotto il controllo dell’esercito di Kiev, che è davanti alla linea di contatto e sa che se la Russia deciderà di avanzare, il destino dell’Ucraina dipenderà dalla propria resistenza militare. Ieri Putin ha mandato molti messaggi preoccupanti all’Ucraina, ha detto che gli accordi di Minsk sono morti e che non è colpa sua. Kiev non poteva accettarli così com’erano, rappresentavano una resa improponibile per un paese che difende il suo territorio da otto anni. Quindi chiedeva una revisione, che Mosca non ha mai voluto concedere. Poi il presidente russo ha detto che spera che l’Ucraina e le due repubbliche possano “risolvere le controversie attraverso negoziati”, ma avverte che “in questo momento è impossibile”. La frase è suonata ancora di più una minaccia perché è stata pronunciata dopo che il capo del Cremlino ieri  ha chiesto e ottenuto la possibilità di mandare le truppe all’estero. Forse non le userà subito, ha aperto uno spiraglio, e alla domanda se la Russia può stare dalla parte del bene pur usando la forza, ha risposto: “Perché pensate che il bene debba sempre essere impotente? Il bene è la possibilità di difendersi”. Nulla da eccepire se questa frase l’avesse pronunciata non lui, ma il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che adesso si trova con una potenza predatrice alle porte  pronta a infrangere la sovranità della sua nazione. Gli ucraini sanno che l’esercito di oggi non è quello del 2014, che possono resistere, sono ben armati, ma sanno anche che davanti alla linea di contatto ci sono loro e il resto dipende da Mosca. 

 

Vladimir  Putin ha elencato i quattro passi che l’Ucraina deve intraprendere se vuole normalizzare le sue relazioni con la Russia: riconoscere la Crimea come territorio di Mosca, rinunciare ai piani di adesione alla Nato, negoziare sul Donbas e infine smilitarizzare il suo territorio. Tutte richieste inaccettabili, tutte molto destabilizzanti, tutte suicidi politici per un leader politico ucraino. Ma se è la destabilizzazione che Putin vuole, farà di tutto perché ceda. Zelensky, arrivato alla presidenza quasi per gioco e ritrovatosi ad avere a che fare con un avversario molto pericoloso, ha detto alla nazione che Kiev non cederà, che i confini non cambieranno: “Siamo dedicati a un percorso pacifico e diplomatico, siamo sulla nostra terra. Non abbiamo paura di niente e di nessuno, non dobbiamo niente a nessuno”. Due giorni prima, Zelensky era a Monaco alla Conferenza sulla sicurezza e aveva detto ai suoi alleati che non aveva senso aspettare per sanzionare la Russia, tanto più se erano così convinti che l’invasione di Putin sarebbe stata imminente. Il messaggio era rivolto soprattutto agli Stati Uniti, che da mesi avvisano dei piani del Cremlino di attaccare l’Ucraina.

 

Kiev ha fatto i suoi conti e l’escalation finora le è costata 3 miliardi di dollari al mese, le cause sono inflazione, investimenti congelati, perdite del turismo, diminuzione del traffico aereo e ora che la Russia ha detto con chiarezza di voler rinunciare a ogni percorso diplomatico la situazione non può che peggiorare. La linea da adottare nei confronti di Mosca a Zelensky è chiara: è pronto a tagliare le relazioni diplomatiche e a difendere il suo territorio. Meno chiara è invece quella da usare nei confronti dei suoi alleati. Gli ucraini sono molto riconoscenti per gli aiuti militari, ma c’è un senso amaro di delusione ora che sanno di essere rimasti gli unici che dentro ai confini di Kiev possono fare qualcosa e sono loro che si vedono smembrare il territorio e hanno la sensazione che l’Ue, se Putin non si spingerà oltre gli attuali confini di Donetsk e Luhansk, non farà più di tanto. Fonti di Kiev hanno detto al Foglio che l’Ucraina ora è molto determinata a chiedere la revisione del memorandum di Budapest firmato nel 1994: Kiev diede alla Russia il suo arsenale nucleare e in cambio le furono date garanzie sulla sicurezza e il rispetto della sua sovranità. Ora che è chiaro che l’Ucraina non può sentirsi sicura né la sua sovranità è più garantita, qualcosa deve essere cambiato. Non c’è un senso polemico nei confronti dell’occidente, hanno detto le fonti, ma solo la richiesta di aggiustare un trattato che evidentemente non funziona. 

 

La grande solidarietà è arrivata ieri dai paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, i primi ad andare nella capitale che, nonostante la Russia stia evacuando la sua ambasciata, non teme l’invasione perché sa che la sua forza sta nel suo nuovo esercito e anche nel suo territorio. Ma nonostante questo, Kiev non può lasciare che gli europei e gli americani chiudano gli occhi sul Donbas, perché anche se la Russia immaginasse uno scenario in stile Abkhazia e Ossezia del sud e si fermasse sui confini attuali, il riconoscimento potrebbe essere un precedente e un playbook che la Russia si sentirebbe libera di seguire ogni volta che vuole ottenere qualcosa da Kiev, dall’Ue, dagli Stati Uniti.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.