La crisi al confine ucraino

Il Cremlino fa i conti: costa più un'invasione o riconoscere il Donbass?

Anna Zafesova

America e Nato rispondono alle richieste russe offrendo un “serio percorso diplomatico”. Ora tocca a Mosca

Il Donbass torna di moda, e da vicolo cieco del grande gioco neosovietico di Vladimir Putin sale in cima all’agenda diplomatica internazionale. Mentre a Parigi si incontrano i consiglieri dei quattro governi del formato Normandia – il formato negoziale che comprende Ucraina, Russia, Germania e Francia  – che cercano di rilanciare i colloqui sugli accordi di Minsk, a Mosca si torna a parlare delle “repubbliche popolari” di Donetsk e Lugansk, le due enclave separatiste di fatto staccate dall’Ucraina dall’invasione russa del 2014. Qualche giorno fa erano stati i comunisti russi a proporre alla Duma di riconoscerle come “stati indipendenti”, un’iniziativa che il Cremlino era sembrato non gradire, anche perché il Partito comunista  russo ultimamente non gode dei favori di Putin. Ma ieri sono stati i fedelissimi di Russia unita, il partito del presidente, a proporre l’invio ai separatisti del Donbass di aiuti militari, e a ribadire che le due enclave sono “repubbliche”, non “alcuni distretti delle regioni di Donetsk e Lugansk dell’Ucraina”, come vengono definite anche dagli accordi di Minsk.

 

Un riconoscimento di fatto, e la firma di Russia unita significa, nella segnaletica politica in uso a Mosca, che l’iniziativa è stata approvata molto in alto. Anche uno dei più influenti politologi russi, Dmitri Trenin del  Carnegie di Mosca, in un’intervista al Kommersant indica l’adozione delle “repubbliche popolari” come uno dei due scenari più probabili: l’altro è un intervento militare su larga scala per sottomettere l’Ucraina. Così Mosca potrebbe reagire alla risposta americana al suo ultimatum sulla spartizione dell’Europa, portato ieri sera al ministero degli Esteri russo dall’ambasciatore John Sullivan con l’offerta di un “percorso diplomatico serio”. Il segretario di stato americano Antony Blinken e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ieri hanno detto che adesso tocca a Mosca far capire cosa vuole davvero. 

 

La ricerca affannosa di un piano B potrebbe spiegare perché un “conflitto congelato” torni  di attualità. Nel 2014, l’operazione nel Donbass era di fatto fallita per due motivi: l’impossibilità, per i russi, di annetterlo senza trasformare una guerra “ibrida” in una guerra vera, e per i costi economici e diplomatici che avrebbe comportato un’altra annessione, dopo quella della Crimea. Secondo le stime dell’economista Sergei Aleksashenko, dal 2014 al 2021 la penisola rubata all’Ucraina è costata a Mosca 2,1 trilioni di rubli, circa 35 miliardi di dollari. Circa 200 euro a testa per ogni russo, soltanto di spese dirette e quantificabili: pensioni, infrastrutture, salari, in una delle regioni più povere della Russia, e più dipendenti dalle sovvenzioni dal centro. Il resto si può soltanto stimare: una ricerca di Blacksea News, per esempio, sostiene che l’annessione della Crimea e le conseguenti spese e sanzioni sono costate alla Russia 200 miliardi di dollari di investimenti mancati, e Aleksashenko parla di un 20 per cento  di pil perduto. Un prezzo che spiega perché Mosca era molto reticente ad “adottare” anche un pezzo del Donbass, una zona di miniere e industria pesante obsoleta già prima di una guerra che ha distrutto fabbriche e infrastrutture. Ma di fronte alla prospettiva di una nuova guerra, il calcolo cambia, e a un pezzo della classe dirigente putiniana armare e finanziare Donetsk e Lugansk comincia a sembrare il male minore. La decisione di inviare armi ai separatisti  trasformerebbe definitivamente l’escalation ucraina in una “proxy war”, dove russi e occidentali si confrontano sul terreno nascondendosi dietro ai secessionisti e ai militari di Kiev.

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