La terza vita terribile di Izolyatsia, da museo a prigione segreta a Donetsk

Micol Flammini

Putin parla di genocidio nel Donbass, ma non fa nulla per fermare la guerra. Chi ha vissuto le conseguenze di quel conflitto sa cosa vuol dire portarsele addosso. Il racconto della detenzione di Stanislav Asseyev in quello che un tempo era un centro artistico 

Il presidente russo, Vladimir Putin, ha detto che quello che sta accadendo nel Donbass – la regione orientale dell’Ucraina in cui si sono costituite le due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk e dove da sette anni va avanti una guerra che ha superato i tredicimila morti – sembra un genocidio. Non è la prima volta che il capo del Cremlino usa questo termine, ma lo ha fatto in un momento di tensione particolarmente fragile, dopo un lungo video incontro con il presidente americano Joe Biden, con le sue truppe disposte lungo il confine orientale dell’Ucraina. Putin ha ragione nel sottolineare quanto sia grave la situazione nel Donbass, dove nei combattimenti tra esercito di Kiev e filorussi sono morte più di 13 mila persone, è un territorio distrutto, ormai poverissimo, ma se il presidente russo ha così paura di un genocidio – secondo lui è la popolazione di lingua russa quella più colpita: “Devo dire che la russofobia è il primo passo verso il genocidio” – sembra non considerare che gli basterebbe poco se non per fermare, almeno per calmare i combattimenti. 

 

Stanislav Asseyev è un giornalista ucraino che sa forse meglio di Putin cosa avviene davvero nel Donbass, ha trentadue anni ed è stato imprigionato per ventotto mesi in una prigione di Donetsk, la cui storia racconta la deformazione che ha subìto la regione negli ultimi anni. Asseyev è stato imprigionato nel carcere di Izolyatsia, che prima della guerra era un centro culturale. Un’ex fabbrica di materiale isolante usata per organizzare mostre. Era un posto vitale, uno di quegli edifici industriali che anziché diventare cadaveri architettonici, hanno l’occasione di una seconda vita e diventano anche il termometro dell'energia di un popolo. L’associazione che si occupava del centro ora si è spostata a Kiev. Izolyatsia però ne ha avuta anche una terza di vita, e dal 2014 è stata trasformata in una prigione, delle più dure nella regione. Asseyev è stato poi scarcerato durante uno scambio di prigionieri e il suo libro “Donbass”, uscito in Francia questo mese e già pubblicato in Ucraina, racconta la storia della detenzione. I lavori forzati, le botte, le urla degli altri prigionieri da cui si riconosceva che tipo di sopruso stessero subendo: quando si trattava di percosse, si sentiva una successione di urla, ma quando le persone venivano torturate con l’elettricità, era un grido costante. Durante le torture era sempre presente un medico, perché dovevano fermarsi prima dell’irreparabile. Ha raccontato della sua di tortura, volevano una confessione, uno dei suoi reati era quello di aver scritto in un articolo “Repubblica popolare di Donetsk” tra le virgolette.

 

Ha raccontato della paura della notte, del senso di umiliazione continuo, degli stupri ripetuti, della fame incessante, di un vivere che andava avanti in un’inerzia piena di paura. Asseyev descrive anche il capo della prigione, detto Palych, lo descrive come un alcolizzato, un sadico che costringeva i detenuti a cantare a squarciagola canzoni sovietiche per non sentire le urla di chi veniva torturato e a violentarsi a vicenda. Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio: un labirinto di celle pieno di ritratti di Lenin. Dopo la sua scarcerazione, Asseyev ha iniziato a raccontare, Izolyatsia era un posto segreto, di cui nessuno conosceva l’esistenza in quanto prigione. Dopo di lui sono state interrogate altre vittime, identificati alcuni responsabili e arrestato Palych mentre era a Kiev. 

 

Ieri il ministero degli Esteri russo ha pubblicato un elenco di richieste che l’occidente deve soddisfare per calmare la situazione tra Russia e Ucraina. Tra queste si legge la rinuncia ad ammettere l’Ucraina come paese della Nato. Non ci sono condizioni sulla pace nel Donbass

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.