La lira secondo Erdogan
Il molto ammanicato industriale Albayrak torna nelle grazie del suocero e presidente turco assieme al suo clan. Ma il ricongiungimento familiare costa al paese una strategia fallimentare che affossa l’economia
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è liberato dell’ultimo dei Mohicani fedele all’ortodossia economica Lutfi Elvan, e ha nominato un suo fido, Nureddin Nebati, per mettere definitivamente le briglie all’economia del paese in vista delle elezioni. Ora che è tornato ad avere anche il pieno controllo del ministero del Tesoro e delle Finanze, oltre che della Banca centrale, può finalmente implementare la sua teoria economica dei bassi tassi di interesse che i suoi critici definiscono come “Erdoganomics” – l’economia che secondo Erdogan mira a mantenere i tassi largamente al di sotto dell’inflazione provocando così una incontrollata svalutazione della lira – con conseguenze nefaste per la popolazione in generale, ma soprattutto per le fasce medie e per quelle più deboli che vedono un costante aumento delle bollette e dei prezzi dei generi di prima necessità. Il leader turco ha di fatto costretto alle dimissioni il ministro del Tesoro e delle Finanze, Lutfi Elvan, che pur presentandosi come uno dei ministri più erdoganiani del suo governo non si è voluto piegare alla stravagante teoria del presidente secondo la quale “l’interesse è la causa e l’inflazione è l’effetto”.
“Chi è a favore dei tassi di interesse non può stare in questo governo”, aveva esclamato il presidente turco ai ministri e al gruppo parlamentare del suo partito. E anche gli economisti turchi che avevano criticato l’Erdoganomics sono finiti sotto tiro, accusati di essere “mandaci ekonomistler”, ovvero “economisti vassalli”, traditori, al servizio di potenze straniere. Il riferimento è al modo in cui vennero appellati alcuni intellettuali in Turchia che prima della guerra di liberazione (1919-23) si dichiararono favorevoli ad un mandato della Lega delle nazioni che aveva il compito di definire i nuovi confini del paese. Erdogan fa un costante richiamo al termine nazionalista-islamico di Beka (“sopravvivenza”), con il quale si invoca la necessità della “difesa della nazione” e ripropone la sua narrazione: la Turchia sarebbe impegnata in una nuova guerra di liberazione, questa volta dal potere economico straniero (anche se non ben definito). Dopo le dimissioni del ministro delle Finanze e la sua sostituzione con un lealista, avvenuta nella notte del primo dicembre, la lira turca ha continuato nel suo costante declino nei confronti del dollaro, registrando rispetto al biglietto verde una perdita dell’80 per cento del suo valore dall’inizio dell’anno.
La valuta turca è finita così ancora una volta sotto attacco speculativo, analogamente a quanto avvenne nel luglio del 2018 e nell’ottobre del 2020. Ma questa volta non a causa di criticità in politica estera – come invece avvenne nel 2018 quando vi fu il caso del pastore evangelico americano Andrew Brunson, del quale Trump chiedeva la liberazione minacciando Ankara di dure sanzioni – e nemmeno a causa di shock esterni, come quello rappresentato dalla pandemia nel 2020. Quella che vive oggi la Turchia è una classica crisi valutaria e dunque finanziaria-inflazionistica, causata da una errata decisione di politica monetaria e dalla perdita di fiducia da parte dei mercati nella Banca centrale che ha perso ogni sua autonomia. Non è causata da problemi nei fondamentali economici del paese come in passato, dal momento che Ankara gode dell’effetto rimbalzo post restrizioni per la pandemia, con una crescita del 21 per cento nel secondo trimestre del 2021 e dell’8,5 per cento prevista su base annua.
Tuttavia, la maggior parte degli economisti prevede un ritorno a una crescita fiacca nel 2022. L’attuale espansione è alimentata soprattutto dal fatto che la svalutazione stia favorendo l’esportazione e dalla ripresa delle entrate per il turismo straniero. Il nuovo ministro Nureddin Nebati è un politico che ha mostrato di aderire pienamente alla visione economica del presidente. È stato assistente di Berat Albayrak, genero di Erdogan, già ministro delle Finanze, anche lui costretto alle dimissioni e poi sostituito, il 10 novembre del 2020, con uno dei consueti “decreti di mezzanotte” proprio da Lutfi Elvan, costretto ad abbandonare il dicastero dell’Economia dopo appena un anno. Elvan era una figura di spicco del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al governo del paese; aveva ricoperto il ruolo di vice primo ministro e di ministro dello Sviluppo economico e dopo la disastrosa conduzione del dicastero dell’Economia da parte del genero di Erdogan, la sua nomina fu salutata come una vittoria dalla vecchia guardia che si era sentita marginalizzata nel nuovo sistema presidenziale dell’uomo solo al comando e per la conduzione familistica dell’amministrazione turca. Con Elvan sembrava che il governo fosse tornato ad abbracciare una politica monetaria più restrittiva e ciò aveva dato speranza di riscatto alle correnti all’interno dell’Akp che avversavano quella denominata “Pelikan” di Albayrak e di suo fratello. Da tempo all’interno del partito del presidente e del suo cerchio magico è in corso una faida, un feroce scontro per il potere tra le correnti tayyipciler (erdoganiani) dei Pelikancilar (la corrente Pelikan che prende il nome dal film con Julia Roberts, “Il Rapporto Pelican”) e quella dei Soylucular (che fa capo al ministro dell’Interno Soylu) forte dei guvenlikciler, i “securitari”, funzionari della polizia che spingono per una ferrea politica securitaria e anticurda.
Il ritorno di Nebati è visto da alcuni osservatori come la rivincita di Albayrak. Non è un caso che sia un socio di rilievo di numerose associazioni di orientamento religioso islamico come Ilim Yayma Cemiyeti, Ensar, Tugva e Onder, fondazioni tutte vicine all’Akp e alla famiglia del presidente. Inoltre fa parte dell’advisory board di Musiad, l’organizzazione degli industriali conservatori islamici. Le male lingue sostengono che l’estromissione di Albayrak dall’amministrazione turca non sia dovuta propriamente alla cattiva conduzione delle finanze – della quale era responsabile assieme al governatore della Banca centrale di allora, accusato di aver bruciato 128 miliardi di dollari di riserve del fondo monetario per arginare la svalutazione della lira – ma a presunti litigi familiari. Ora è arrivato Nebati, un esecutore della volontà del presidente, l’uomo giusto per attuare le misure erdoganiane che prevedono l’emissione di prestiti a basso interesse per dare respiro agli imprenditori in vista delle elezioni del 2023. Se ciò dovesse accadere, la Turchia potrebbe rivedere il film che fece precipitare il sistema bancario nella crisi del 2001, dopo il programma di austerità del 5 aprile 1994, annunciato dall’allora primo ministro Tansu Çiller: proprio come avvenne in quegli anni, Erdogan con la sua visione farebbe spendere alla Turchia soldi che non ha. Per questo la designazione di Nebati è considerata come l’avvio pieno dell’Erdoganomics. In sostanza quella di Erdogan si può definire come una rischiosa pratica di “economia elettorale”: una crisi valutaria autoprodotta.
Il leader turco è da tempo convinto che l’inflazione sia causata da alti tassi di interesse che aumentano il costo del prestito e della produzione. Per questo ha messo sotto il suo controllo la Banca centrale e ha perseguito in modo aggressivo riduzioni del suo tasso di riferimento. Ciò è in diretta contraddizione con i princìpi economici tradizionali. Si sostiene anche che la sua opposizione agli alti tassi di interesse abbia origine dal suo background islamico profondamente radicato. Ma ciò che ora lo spinge ad agire rivoluzionando il paradigma della politica economica consolidata, propria delle economie di mercato, e soppiantarla con la sua visione ideologica, è il fatto che dovrà affrontare le elezioni entro i prossimi diciotto mesi: entro giugno 2023. Per questo diffida degli effetti recessivi degli alti tassi di interesse. Tassi più alti metterebbero in pericolo ciò di cui ha più bisogno, vale a dire di un’economia vivace che crea occupazione.
Erdogan è al potere ininterrottamente dal 2003. Questa, tuttavia, è la prima volta che incontra un ambiente inflazionistico così alto: il 58,65 per cento annuo, secondo l’Inflation Research Group (Enag), un istituto di economisti indipendenti. Il presidente manca quindi dell’esperienza necessaria per affrontare una crisi del genere e si mostra impaziente. È convinto di avere ragione e pensa di saperne più di chiunque altro. Inoltre, si è circondato di persone che sono yes man. Il problema dell’economia turca è lo stesso da diversi anni e manifesta squilibri strutturali della sua bilancia commerciale, con un eccesso di importazioni per il deficit di competitività delle imprese locali. Un’economia spinta soprattutto dal settore dell’edilizia e con scarsa ricerca e sviluppo. Questo implica che la Turchia ha bisogno di capitali in ingresso per finanziare le sue importazioni, in assenza dei quali deve intaccare le riserve valutarie, come è già avvenuto, oltre che accettare di indebolire il cambio.
Il presidente ritiene che siano necessari tassi di interesse bassi per stimolare la crescita economica, aumentare la produzione, creare posti di lavoro, ridurre l’inflazione e attrarre investimenti esteri. Sostiene che i maggiori oneri finanziari rallentino l’economia e che determinino aumenti dei prezzi, perché le aziende riflettono l’aumento dei costi di finanziamento nel prezzo dei loro prodotti. Ma gli economisti avvertono invece che i tagli dei tassi di interesse faranno aumentare l’inflazione – che è già quattro volte maggiore di quella programmata – ed eroderanno i guadagni e i risparmi dei turchi. Inoltre sostengono che con la riduzione dei tassi non aumenterebbe nemmeno la produzione perché molti produttori si affidano a beni ed energia importati, il che significa che i loro costi di input aumenterebbero. Anche la convinzione del presidente che vi sarebbe un ritorno degli investimenti esteri a causa della debolezza della lira è quanto mai infondata, perché il ritorno dei capitali degli investitori stranieri può avvenire solo riacquistando la fiducia dei mercati e ciò comporta istituzioni stabili e indipendenti e il ripristino dello stato di diritto che nel frattempo invece è stato smantellato. La “Nuova Turchia” che dice di voler costruire Erdogan non è certo una destinazione attraente per i capitali esteri.
Ma il leader turco sembra irremovibile e ha definito la sua crociata contro i tassi di interesse come “uno strumento di sfruttamento” analogo al “traffico di eroina” e come “madre e padre di tutti i mali”. La visione economica non ortodossa del presidente riflette non solo le sue convinzioni ideologiche di lunga data, ma anche le peculiari dinamiche dell’ordine economico capitalista clientelare del paese. Dal punto di vista ideologico, la visione del mondo di Erdogan va oltre la tradizionale credenza musulmana secondo cui il riba (l’interesse o usura) è haram (cioè proibito) e si estende a una teoria della cospirazione alla quale il presidente turco aderisce. Erdogan ha spesso espresso la sua opposizione a quella che lui definisce come “lobby dei tassi di interesse”, che sarebbe costituita da circoli e potenze straniere che tramerebbero per affossare l’economia turca. In realtà questa retorica ideologica serve al presidente per rendere accettabile dai suoi sostenitori, nazionalisti e osservanti, questa teoria economica: ma al di là dell’aspetto ideologico c’è una ragione pratica. Erdogan necessita di liquidità da iniettare sul mercato per dare ossigeno all’imprenditoria fortemente indebitata con l’estero. Si sta però registrando una fuga di capitali; una parte rilevante della grande imprenditoria turca è stata sempre molto legata al partito di governo dal quale ha tratto grande nutrimento in questi diciannove anni di potere. In assenza di capitali, che si stanno dirigendo verso mercati più attrattivi, ha bisogno di un costante stimolo monetario per aumentare i consumi e mantenere a galla finanziariamente la cerchia ristretta di amici d’affari che ruota attorno alla sua amministrazione e non sembra avere altra possibilità di sopravvivenza, per questo è incapace di liberarsi delle sue teorie cospirative e dei suoi compari.
La strategia erdoganiana presenta molte falle: in primo luogo, è probabile che la conseguente accelerazione dell’inflazione annulli qualsiasi miglioramento della competitività internazionale nel medio termine. Cosa ancor più certa è che il persistente tasso di interesse reale negativo, largamente al di sotto dell’inflazione, attiverà una fuga dei risparmi in lira turca verso le valute estere: assisteremmo alla crescente dollarizzazione dei conti di risparmio delle famiglie, dei proprietari e delle imprese. Non vi è alcun incentivo per i risparmiatori nazionali a mantenere i propri depositi bancari in lira ed infatti ad oggi la quota di depositi in valuta estera nelle banche è del 59,6 per cento, ha raggiunto i livelli del 2001, quando vi fu la dollarizzazione dei risparmi. Questa discrepanza continuerà quindi ad alimentare la domanda di valuta estera e innescherà una spirale in cui a un ulteriore deprezzamento della lira corrisponderà una sempre maggiore inflazione.
In secondo luogo, il rapido deprezzamento della valuta turca impoverirà i cittadini – il loro potere d’acquisto sta diminuendo sempre più. Anche il reddito annuo pro capite definito in dollaro Usa è sceso a circa 7 mila dollari l’anno: dal 2013, anno di punta per l’economia turca, i redditi pro capite sono costantemente diminuiti. La conseguenza più probabile di questo sconsiderato esperimento economico sarà quella di un’economia in contrazione a cui corrisponderà un’ulteriore perdita di sostegno politico per l’attuale leadership. La lira turca ha già perso la sua funzione di riserva di valore e se questa tendenza negativa dovesse continuare, con una inflazione fuori controllo, potrebbe anche causare la perdita delle sue funzioni di unità di conto, cioè la perdita della funzione di unità numerica standard per la misura del valore di mercato di beni e servizi e dunque non avrebbe più un valore di mezzo di scambio.
Se ciò dovesse accadere, inizierebbe una spirale di alta inflazione, di livello certamente più basso rispetto a quello registrato negli anni Novanta, ma molto più alto rispetto al 2010, anno della crisi del debito sovrano. Dunque gli aumenti salariali che promette Erdogan risulterebbero sempre inferiori all’inflazione e causerebbero comunque un balzo del tasso di povertà. Gli effetti più critici di questa stravagante politica di deprezzamento della lira attraverso la riduzione dei tassi di interesse potrebbero essere i disordini sociali e l’insofferenza degli imprenditori che si innescherebbero a causa dell’interruzione della catena di approvvigionamento dovuta all'instabilità monetaria interna.
In prossimità del voto il presidente turco per recuperare il consenso perduto potrebbe decidere di placare il malcontento popolare con un massiccio aumento della spesa pubblica, con un drastico aumento dei salari minimi e degli stipendi dei dipendenti pubblici mediante la stampa di moneta, ma l’espansione monetaria porterebbe direttamente a nuovi minimi per la valuta e peggiorerebbe le aspettative inflazionistiche. Finora la burocrazia non ha mostrato segnali forti di insofferenza e l'alleanza dell’Akp che è al governo con il Partito del movimento nazionalista (Mhp) di estrema destra è ancora salda e non sembra esserci un numero sufficiente di parlamentari della coalizione governativa disposti a dimettersi per consentire le elezioni anticipate. Per ora il timore maggiore è che possano insorgere proteste spontanee di massa per l’aumento della povertà e che il governo le reprima istituendo lo stato di emergenza.
L'editoriale dell'elefantino