Tra Francia e Italia

Quanto si fa seria “la disciplina dell'amicizia” con il trattato del Quirinale

Micol Flammini

Un’intesa nata per andare avanti anche oltre Draghi e Macron. Serve a blindare il futuro dai meccanismi fragili della politica. I consigli dei ministri condivisi e i progetti comuni

A Mario Draghi ed Emmanuel Macron sembra che basti guardarsi per andare d’accordo e la firma del trattato del Quirinale oggi a Roma non poteva tenersi in un’atmosfera più entusiasta, alimentata dal fatto che  l’accordo non va considerato un punto di arrivo, ma di partenza. E’ una base, e adesso bisogna continuare a costruire le relazioni tra Italia e Francia. Sul testo si è lavorato fino a tardi ed è stato Draghi a sottolineare per primo uno degli obiettivi aggiunti all’ultimo che  rappresenta una svolta politica importante per i due paesi: almeno una volta ogni trimestre, un ministro italiano parteciperà a un Consiglio dei ministri francese, e viceversa. 

 

La relazione tra Francia e Italia è antica, profonda e tormentata e questo Trattato serve a creare dei meccanismi istituzionali per rendere la cooperazione non soltanto ideale ma anche strutturale.  Nel settore della Difesa sono previsti scambi tra le  Forze armate,  di materiali e attrezzature. Sul piano economico si gioca molto sulla promessa di non vedere più ripetersi  scontri quali Stx e Fincantieri. Si punta a crescere, a farlo insieme. Si punta a non litigare più. Oggi la convergenza è ottima, Draghi e Macron vanno d’accordo, hanno un’idea di Europa sovrapponibile, hanno trovato un linguaggio con il quale intendersi anche su argomenti come la Libia e ci si chiede quanto delle strette di mano, della volontà di disegnare una nuova Europa, di farlo insieme, rimarrà quando i due leader non saranno più al loro posto: Draghi potrebbe andare al Quirinale e Macron ha un secondo mandato da vincere contro due rappresentanti dell’estrema destra euroscettica, Marine Le Pen ed Eric Zemmour. “Quando si firma questo tipo di trattato si deve pensare al futuro. Ora non c’è una crisi, ma si può immaginare che tra qualche mese le cose potrebbero essere  diverse”, dice al Foglio Jérôme Gautheret, corrispondente per il Monde da Roma. Con questo trattato  si cerca di blindare il futuro. “Sono accordi che nascono con un valore storico. Se si pensa a quello firmato tra Germania e Francia, quanti governi sono cambiati tra i due paesi in questi anni dal ‘63 a oggi? A un certo punto l’intesa diventa automatica”, libera dai cambiamenti della politica.  

 

L’idea del Trattato è nata con Paolo Gentiloni, che nel 2017 era presidente del Consiglio e oggi è commissario europeo per gli Affari economici. Macron ha raccontato il contesto: a Marsiglia, durante un vertice franco-italiano, gli venne chiesto perché tra Roma e Parigi non ci fosse un accordo simile a quello con la Germania. “Si sono accorti che non ci si poteva permettere che tra le due nazioni le cose andassero male”. E invece dal 2017 a oggi di cose andate storte ce ne sono state parecchie, il culmine fu il viaggio di Luigi Di Maio (già  ministro) e Alessandro Di Battista  dai gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco la Francia contro Macron. In quegli anni bui, quando in Italia non c’era nessuno con cui parlare, a salvare i rapporti, dice Gautheret, è stato Sergio Mattarella. “Nel punto più basso della relazione franco-italiana, quando i ministri non si parlavano più, il presidente della Repubblica ha salvato il rapporto. Per la Francia è stato l’interlocutore, ha riempito i vuoti e creato una continuità fino a oggi”. Il vero cambiamento con Draghi a Palazzo Chigi sta nel fatto che per la prima volta l’Italia ha un personaggio molto riconoscibile alla sua guida, che le  ha dato più peso. Le stelle, dice Gautheret, si sono allineate. Non lo rimarranno per sempre, ma il Trattato è un impegno da parte dei due paesi a non tornare ai “momenti di rabbia istituzionale sperimentati negli anni scorsi. E’ anche un Trattato di riconciliazione”. 

 

Francia e Italia sono spesso lo specchio l’una dell’altra, ma “la vicinanza culturale ci fa un po’ distrarre dalle difficoltà”. Dietro al trattato del Quirinale c’è l’ombra di quello dell’Eliseo tra Francia e Germania, si fanno le comparazioni, si cercano i punti di debolezza e quelli di forza. In molti hanno commentato che quello con l’Italia è meno ambizioso e si è cercato a quale delle due diplomazie dare la colpa. Secondo Gautheret il paragone non è necessario: “Sono nati in periodi storici diversi, da un’urgenza di pace che con l’Italia non c’è”. E poi tra i due c’è anche il tempo, il trattato dell’Eliseo è cresciuto negli anni, quello del Quirinale ha l’opportunità di crescere ancora “perché corregge i meccanismi fragili della politica. Basti pensare che nelle aziende francesi ci sono  già molti manager italiani: la società civile era già più avanti delle istituzioni”. E poi bisogna fare attenzione alle sfumature linguistiche. “Quando si parla del rapporto con la Germania, ci si riferisce a un matrimonio franco-tedesco. Quindi – dice Jérôme Gautheret – a un contratto. Con l’Italia si usano termini diversi, presi dal lessico della famiglia, l’Italia è il cugino o il fratello”, dipende da quanto si litiga. “Quando c’è un contratto, le cose si aggiustano parlando, chiarendo, mettendo nero su bianco. Con la famiglia, è tutto più burrascoso”. Il rimedio è soltanto uno: “La disciplina dell’amicizia” – termine macroniano di quelli destinati a rimanerci in testa – che Draghi e Macron hanno appreso in fretta. 

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.