Giornalista, primo della lista

Daniele Raineri

I premi Nobel assegnati ieri a due giornalisti sono il riconoscimento di una minaccia crescente: aggredire i media è il marchio di fabbrica degli estremismi coltivati su piattaforme tech

 Questo è un articolo di giornale che parla anche di giornalismo e quindi è imperdonabile perché la categoria tende all’auto referenzialità e alla mitomania e all’elogio delle scarpe consunte scritto in ciabatte di spugna. Il rischio è di assomigliare a un personaggio di P.G. Wodehouse, quel poeta che scriveva versi ardenti come “Vivi! Ogni goccia del tuo rosso sangue vivi!” e poi dopo avere venduto le sue poesie  passava sei mesi a oziare in amaca senza muovere un dito. Ma facciamoci coraggio e andiamo oltre. Ieri la Commissione norvegese per il Nobel ha assegnato il premio per la Pace a due giornalisti: la filippina Maria Ressa, che ha fondato il sito d’informazione Rappler e che è diventata una temibile avversaria del presidente Rodrigo Duterte con le sue inchieste sui finanziamenti ai politici e sulla violenza delle squadre antidroga della polizia, e il russo Dmitri Muratov, fondatore nel 1993 del giornale Novaya Gazeta, che resta una voce indipendente e solitaria contro il potere del presidente Vladimir Putin e che negli anni ha resistito a bordate incessanti di violenze e intimidazioni. Muratov dirige la Gazeta dal 1995 e ha visto sei dei suoi giornalisti morire assassinati, inclusa Anna Politkovskaya, uccisa a pistolettate dentro all’ascensore del suo palazzo. Ha dedicato il premio anche a lei.

 

Questi Nobel sono un omaggio alla libertà di espressione, ma sono anche il riconoscimento di una minaccia sempre più forte. Qualsiasi sia la follia ideologica partorita dagli anni Dieci, la prima mossa che ha fatto è stata gonfiarsi a dismisura sulle piattaforme tech grazie alla disinformazione e la seconda mossa è stata aggredire i giornalisti. E’ uno schema fisso. Il trumpismo estremo che alimenta numeri enormi sui social e delegittima i media perché sono “fake news!”. Duterte che vince la presidenza nel 2016 grazie a ondate di disinformazione su Facebook – come ha raccontato proprio Maria Ressa. “Una bugia replicata un milione di volte diventa un fatto – avvertiva – fate attenzione perché quello che succede qui da noi poi arriverà anche in occidente”. E una settimana dopo in effetti arriva la Brexit, un altro caso di miscela reattiva fra ideologia e propaganda tech. E poi ancora sarà il turno di QAnon, la setta americana che crede nella necessità di imprigionare e giustiziare gli avversari politici di Trump e che mentre cresceva con rapidità sorprendente teorizzava che i media sono nemici e non vanno ascoltati perché l’unico modo di giungere alla verità è la “ricerca personale” (si tratta, di solito, di passare ore nella giungla dei complotti più colorati, offerta gentilmente dall’algoritmo delle piattaforme tech. Fino a poco tempo fa, prima che fossero costrette a correggersi e a prendere contromisure). Putin aveva cominciato molto prima, ma è in questi anni di interventi russi all’estero, dall’Ucraina alla Siria alla Libia fino alle interferenze nelle elezioni americane, che la propaganda putinista sui social comincia a spingere forte anche all’esterno. E anche il movimento degli antivaccinisti ha come pilastro centrale il rigetto attivo dei media. L’aggressione programmatica contro i giornalisti – non la critica sacrosanta, che è necessaria – è diventata il segno di riconoscimento dei nuovi estremismi coltivati su piattaforma. Il Nobel per la Pace nel 2021 è un premio ai giornalai. 

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)