La Francia uccide un boss dello Stato islamico nel Sahel, la missione è infinita (e quindi da abbandonare?)

Daniele Raineri

Il contingente francese in Africa contiene l'infestazione dei gruppi terroristi, finché farà il suo lavoro malsopportato non ci accorgeremo che esiste

Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato ieri notte l’uccisione del capo dello Stato islamico nella regione del Grande Sahara, Adnan Abu Walid al Sahrawi. Per Macron è “un altro grande successo delle forze francesi”, che da sette anni sono presenti nel Sahel con migliaia di soldati per contenere l’infestazione dei gruppi terroristici. L’operazione è stata però meno brillante di quanto lascia intendere il presidente francese: il 17 agosto un drone ha visto due uomini armati in motocicletta nell’area di confine tra Mali e Niger e questo è considerato un criterio sufficiente per autorizzare il lancio di un missile contro il veicolo. Sono attacchi di droni che si basano sul comportamento e non sull’identità accertata dei bersagli. Soltanto dopo si è scoperto che uno dei due era il leader dello Stato islamico, marocchino, transfuga di al Qaida diventato il fondatore dello Stato islamico in quella parte di Africa nel 2015. Per anni Sahrawi aveva chiesto di essere riconosciuto in via ufficiale dalla casa madre del gruppo ed era infine successo nel 2019, dopo che la sua fazione aveva ucciso quattro uomini delle Forze speciali americane in un’imboscata. Quindi l’operazione di agosto del drone francese è stata un successo, ma ottenuto grazie alla routine di una guerra dimenticata più che a informazioni accurate di intelligence che decifrano il terreno. 

Wassim Nasr, esperto di jihad e giornalista di France24, dice al Foglio che l’uccisione dei capi non è mai stata una strategia definitiva a lungo termine. Al Sahrawi potrebbe essere ora rimpiazzato da qualche capo locale, magari dell’etnia Fulani, che potrebbe dar voce alla causa Fulani e integrarla nello Stato islamico. I Fulani sono un popolo nomade del Sahel impegnato in una guerra permanente contro altre etnie locali per sfruttare le risorse essenziali come acqua e terreno. Nei raid e nelle rappresaglie dei Fulani muoiono centinaia di persone ogni anno e se lo Stato islamico riuscisse a intestarsi questa lotta – come in passato si è inserito nella guerra civile siriana e in quella libica – potrebbe crescere molto in fretta. Nasr inoltre spiega che Al Sahrawi era un capo che esercitava un controllo molto stretto sui suoi comandanti, che spesso operano a centinaia di chilometri e quindi è quasi come se fossero fazioni indipendenti. Il suo successore potrebbe essere più permissivo e questo potrebbe portare a un aumento del caos in un territorio che è già disastrato. 

La Francia è da anni impegnata in questa missione di contenimento contro i gruppi terroristici nel Sahel e non sa come uscirne. Chiede aiuto agli alleati, che lo offrono ma senza larghezza, e cerca di puntellare i governi locali, che però mutano più veloci delle sabbie mobili tra colpi di stato e cambi di alleanze. Quattro giorni fa Reuters ha scritto che il Mali potrebbe arruolare mille mercenari russi del gruppo Wagner e il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha detto che la presenza dei russi sarebbe “incompatibile” con quella dei soldati francesi. O noi o loro.  

Difficile non vedere le similitudini con l’Afghanistan, dove i contingenti militari occidentali sono stati impegnati per anni in una campagna di contenimento contro i talebani che funzionava soltanto a una condizione: che i soldati stranieri non se ne andassero. Quando si sono ritirati, i talebani hanno preso il controllo del paese. Come in Afghanistan, anche nel Sahel l’eliminazione dei capi non è risolutiva. Gli americani uccisero il capo di al Qaida, Osama bin Laden, nel 2011, e il capo dei talebani, Akhtar Mansour, nel 2016, ma i due gruppi sono diventati più forti. Come in Afghanistan, è difficile spiegare all’opinione pubblica perché i soldati sono impegnati in quelle operazioni. Se i soldati francesi nel Sahel hanno successo l’impatto in patria è zero perché l’opinione pubblica non si accorge dei pericoli evitati, vede soltanto il logorio delle missioni a tempo indeterminato. 
 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)