le strade di Dublino (foto Unsplash)

Il popolo irlandese torna a crescere ed è solo merito del capitalismo

Maurizio Stefanini

La Repubblica d'Irlanda supera i cinque milioni di abitanti, per la prima volta in più di centocinquant'anni. Merito di una tassazione per le imprese al 12 per cento e di un mercato competitivo (e nonostante la profezia di Marx)

Per la prima volta dai tempi della grande carestia del 1845-49, l’Irlanda è tornata a superare i 5 milioni di abitanti. Raggiunto lo scorso aprile ma comunicato dall’Istituto nazionale di statistica irlandese (Cso) ora, il traguardo ha una rilevanza non solo storica e demografica, ma anche politica. Marx, infatti, indicò più volte l’asservimento coloniale dell’Irlanda come “il segreto con il quale la classe capitalista mantiene il suo potere”. Cioè, secondo lui era stato il capitalismo a determinare, per i suoi interessi, le condizioni per una serie di cattivi raccolti delle patate attraverso una malattia che aveva ucciso un milione di irlandesi, e ne aveva obbligati un altro milione ad emigrare. Giusto il 6 dicembre prossimo si celebrano i cento anni esatti dal Trattato con cui l’Irlanda ridivenne indipendente. Per gran parte di questo secolo, questo Eire indipendente ha però continuato ad essere una terra povera, da cui la gente ha continuato a emigrare. 

E’ stata infine una rivoluzione capitalista basata su una politica di sgravi fiscali che ha permesso al paese di superare in reddito pro capite gli ex-dominatori, diventare terra di immigrazione, e oggi ritornare a popolarsi.      L’ultimo numero paragonabile a questo si era avuto al referendum del 1851, con 5,11 milioni di abitanti nel territorio dell’attuale Repubblica di Irlanda e 6,6 milioni in tutta l’isola (oggi 6,9). Per capire l’impatto di quella che in inglese è definita “Great Famine” o “Great Hunger” e in gaelico “An Gorta Mór”, bisogna ricordare che nel 1840 l’isola superava gli 8 milioni di abitanti, contro i neanche 15 dell’Inghilterra. Cioè, l’Inghilterra aveva meno del doppio degli abitanti dell’intera Irlanda, mentre oggi è quasi il decuplo. E per capire l’impatto dell’emigrazione, i 70-80 milioni di oriundi irlandesi sparsi per il mondo indicano oltre 10 discendenti di emigrati per ogni irlandese restato a casa.  40 milioni di oriundi irlandesi vivono negli Stati Uniti, 14 milioni nel Regno Unito, 7 milioni in Australia, 4.267.000 in Canada, 600.000 in Nuova Zelanda, 500.000 in Argentina e 120.000 in Cile. 

Oggi però l’Irlanda è il settimo paese al mondo per reddito pro capite, con 94.556 dollari l’anno: quasi il doppio rispetto ai 46.344 del Regno Unito, solo 29esimo. Ma anche un terzo in più dei 68.039 degli Stati Uniti, decimi. Anzi, non c’è un solo paese storica meta della emigrazione irlandese che in questo momento abbia un reddito pro capite più alto dell’Eire. In Irlanda invece oggi si emigra, e il 10 per cento della popolazione è di origine straniera. Tra 2017 e 2020, addirittura, il Taoiseach, capo del governo, è Leo Varadkar, figlio di un indiano, è apertamente gay, a riprova di come l’Irlanda sia cambiata anche rispetto ai tempi della sua immagine ultraclericale. Il paese ha un tasso di natalità doppio alla mortalità che è unico, in una Unione europea un po’ dappertutto in fase di decremento demografico.

“Tigre celtica” è l’espressione con cui è stata riassunto sia il boom economico irlandese, sia la sua connessione con antiche radici. Leader degli U2 e icona di una quantità di battaglie progressiste, anche Paul David Hewson, in arte Bono, ha spiegato che questa rinascita è stata tutto merito della Corporate Tax: una imposizione delle imprese al 12,5 per cento contro il 35 degli Stati Uniti e il 24 della media Ocse. “Io sarei socialdemocratico, ma è stata la competitività fiscale a portare al nostro paese la sola prosperità che abbia mai conosciuto”, disse Bono  in una famosa intervista che scandalizzò larga parte di un pubblico di fan abituato a considerare le multinazionali come il diavolo. “Come persona che ha passato quasi trent’anni a lottare per strappare la gente alla povertà, è forse umiliante dover riconoscere che il commercio gioca un ruolo più importante dello sviluppo, ma è stata questa la mia grande trasformazione degli ultimi 10 anni”. 

Nel 2016-17 le imprese straniere hanno pagato l’80 per cento dell’imposta sulle società irlandese, hanno impiegato il 25 per cento della forza lavoro, hanno pagato il 50 per cento dell’imposta sugli stipendi, e hanno creato il 57 per cento del valore aggiunto non agricolo irlandese. Ovvie le accuse di “paradiso fiscale”, ma il fatto è che le imprese straniere in Irlanda non si limitano a spostarci la sede, ma ci vengono a lavorare. Così, la carestia della patata è stata vendicata

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