La luna di miele dei talebani con Pechino è solo propaganda

Giulia Pompili

I nuovi rapporti tra Cina e Afghanistan si reggono su un gioco di equilibri inedito nella diplomazia della Repubblica popolare. Parla Andrew Small (German Marshall Fund)

Il primo media internazionale autorizzato a entrare dentro all’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, dopo che i talebani ne hanno preso il controllo, è cinese. Ed è stato alle telecamere della tv di proprietà del Partito comunista cinese, la Cgtn, che il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid ha annunciato, in lingua inglese, che lo scalo era sotto l’autorità dei talebani dopo la conclusione delle operazioni di evacuazione occidentali. E insomma la “relazione privilegiata” tra Pechino e i talebani era già abbastanza chiara così, ma il portavoce ieri l’ha confermata anche in un’intervista a Repubblica: “La Cina è il nostro partner principale e rappresenta per noi una fondamentale e straordinaria opportunità poiché è disponibile a investire e a ricostruire il nostro paese”. La propaganda cinese vuole far passare il messaggio che la Cina ha un accesso speciale all’Afghanistan perché è una potenza salvatrice e benefica, ma per Pechino si tratta dell’inizio di una complicatissima operazione, un gioco di equilibri inedito nella diplomazia della Repubblica popolare cinese.


“E’ molto utile per i talebani far passare il messaggio che non saranno dipendenti dai paesi occidentali o da altri attori internazionali, perché possono contare sulla Cina”, spiega al Foglio Andrew Small, senior transatlantic fellow del German Marshall Fund e autore, lo scorso anno, di “The China-Pakistan Axis” (Hurst). “D’altra parte, conviene alla Cina far credere di avere un peso sui talebani”, dice Small, “specialmente quando si tratta di estremismo islamico o di temi sensibili come quello che riguarda gli uiguri”. Si tratta quindi di un gioco delle parti, ma è difficile pensare – come vorrebbe far credere Pechino – che la Cina sia la salvezza: “I talebani sono in un periodo di transizione, e Pechino sta osservando genuinamente le prossime mosse”. Ma c’è una cosa importante che la Cina vuole dal governo dei talebani: “Un Emirato afghano sottoposto a sanzioni internazionali non sarebbe utile, perché vorrebbe dire nuovi problemi e pressioni sui confini, e per le aziende cinesi sarebbe  difficile lavorare e fare business in un ambiente  senza relazioni con l’occidente”. Ma cosa può fare tecnicamente il Dragone per i talebani? Secondo Small ci saranno delle limitazioni sul supporto economico che la Cina potrà dare all’Afghanistan: “Di sicuro parliamo di sussidi economici, che in realtà già fornisce all’Afghanistan. Ma quello che farebbe davvero la differenza sono gli investimenti cinesi, che avrebbero un enorme impatto sull’economia del paese. Ma per sviluppare una rete simile servono molti anni e molte aziende, ed è difficile che si possa realizzare”. 


E poi c’è un altro fattore da considerare: il Pakistan. Con cui la Cina ha sempre tessuto relazioni molto importanti anche grazie al nemico comune, l’India.  Ma i rapporti tra Pechino e Islamabad sono stati periodicamente oscurati dai frequenti attacchi di estremisti islamici contro i cinesi e quella che i diplomatici di Pechino descrivono come la “talebanizzazione” dell’area. Durante l’invasione dell’Unione sovietica in Afghanistan, la Cina ha un ruolo fondamentale nell’operazione internazionale per recuperare vecchie armi sovietiche e metterle nelle mani dei mujahiddin. Ma dalla guerra del 2001 Pechino resta fuori. Nel febbraio del 2002, quando l’ambasciata cinese a Kabul riapre, la Cina ricomincia a tessere relazioni: “L’approccio di Pechino in Afghanistan si basava su una politica attenta e circoscritta che evitava di schierarsi o di farsi nemici inutili”, scrive Small. “La percezione che i cinesi fossero in grado di estrarre risorse solo sotto la garanzia della protezione dei militari americani sarebbe stata antitetica rispetto all’obiettivo della Cina non solo nella regione ma nel più ampio mondo islamico”. Il dialogo con i talebani inizia all’epoca, ma senza mai fidarsi troppo: “La Cina fa in parte ancora affidamento sul Pakistan per il dialogo con i talebani. A Pechino credono che tutta la situazione sia una responsabilità diretta di Islamabad, ed è sul governo pachistano che possono fare pressioni”, per esempio sulla questione del controllo del terrorismo islamico non tanto all’interno dei confini cinesi, nello Xinjiang, ma piuttosto contro cittadini e interessi cinesi all’estero, soprattutto in Afghanistan e in Pakistan. “Ci sono figure talebane che vorrebbero una relazione diretta e non mediata con la Cina”, dice al Foglio Andrew Small, “per esempio sappiamo che il mullah Abdul Ghani Baradar voleva costruire un dialogo diretto con Pechino ma, al contrario, il Pakistan vuole presenziare a ogni meeting”. In questo senso, l’incontro tra il ministro Wang Yi e Baradar di fine luglio in Cina era più un messaggio a Islamabad che al resto del mondo. “D’altra parte bisogna considerare che Pechino ha ancora bisogno di un mediatore perché non conosce bene il mondo talebano, è fuori dalla sua comfort zone quando tratta con loro. Allo stesso tempo però si fida poco anche del Pakistan”.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.