(foto Ap)

Next stop Baghdad. Le paure sul prossimo ritiro americano

Rolla Scolari

Con tutte le dovute differenze, gli americani potrebbero seguire la strategia della ritirata sul modello afghano anche in Iraq. E c'è già chi teme che questo darà nuovo coraggio all'Isis

Davanti all’inesorabile avanzata delle milizie, i soldati dell’esercito regolare – stipendiati e armati dagli Stati Uniti – si sono tolti di fretta le divise, hanno abbandonato nel buio le caserme, con al loro interno casse di fucili automatici, munizioni, veicoli militari americani, si sono confusi tra la popolazione. Gli estremisti – inferiori in numero e male armati – hanno conquistato in pochi giorni un terzo del territorio nazionale. Accadeva in Iraq, era il 2014. Si arrendevano, davanti all’avanzata dello Stato islamico, città come Tikrit, Falluja, Mosul, secondo centro del paese e da allora nuova capitale del gruppo di fanatici. Ci sono poi voluti tre anni di feroci battaglie per strappare all’Isis quel territorio. E soprattutto, è servita l’azione di una coalizione internazionale, il ritorno in Iraq, dopo il definitivo ritiro del 2011, di 2.500 soldati americani. Qualcuno ha già fatto paragoni con il rientro in queste ore a Kabul di migliaia di marines, rispediti in Afghanistan a gestire le pericolose operazioni di evacuazione. 

Next stop Baghdad, con tutte le dovute differenze. Alla Casa Bianca, a fine luglio, mentre già i talebani avanzavano sottovalutati su Kabul, il presidente americano Joe Biden ospitava il premier iracheno Mustafa al Kadhimi e annunciava, entro la fine dell’anno, il ritiro delle truppe da combattimento americane dal paese, senza però specificare se e quanti di quei 2.500 soldati resteranno con compiti di addestramento dell’esercito locale.

E’ da quando un drone americano nei primi giorni di gennaio del 2020 ha ucciso a Baghdad Qassem Soleimani, capo delle forze Quds, corpo speciale delle Guardie rivoluzionarie iraniane incaricate di compiere operazioni all’estero, che sugli Stati Uniti sono aumentate le pressioni per un ritiro. Lo chiedono in Iraq quei partiti politici legati all’Iran, mentre i vertici del Pentagono accusano le milizie sciite finanziate e armate da Teheran di essere all’origine di attacchi alle basi militari irachene che ospitano anche personale internazionale.

Da una parte ci sono le preoccupazioni per una definitiva capitolazione dell’Iraq nella sfera di influenza iraniana. Le milizie sciite, forti del loro ruolo cruciale nella sconfitta dell’Isis, sono una forza non soltanto militare, ma anche politica. A ottobre, l’Iraq, che a differenza dell’Afghanistan ha istituzioni strutturate, ma egualmente corrotte, andrà alle urne. Molto di quel ritiro annunciato da Biden dipende da quanto il voto sarà favorevole all’Iran, cui Washington non vuole certo lasciare spazio di manovra nella regione.

Dall’altra parte, c’è chi teme che un ritiro iracheno dia nuovo coraggio all’Isis, fiaccato da anni di guerra ma ancora in agguato. Sono i curdi iracheni e siriani, al nord, a guardare con maggior sgomento alle immagini in arrivo dall’Afghanistan. Le loro televisioni hanno intervistato l’ex ambasciatore americano nel paese Douglas Silliman che ha assicurato: “Il ritiro americano non sarà completo”. L’inquietudine resta. I combattenti curdi sono stati strumentali nell’eradicazione dello Stato islamico, i maggiori alleati della coalizione internazionale sul campo, dove il successo è arrivato però anche attraverso il sostegno aereo, logistico e di intelligence americano. In Siria, a fianco dei curdi locali, sono ancora dispiegati 900 soldati americani. Rudaw, uno dei principali media del Kurdistan iracheno, ha proposto un esercizio di stile che racconta molto dei turbamenti davanti alle immagini di caos e terrore a Kabul. Il suo sito ha pubblicato l’intero primo discorso di Joe Biden dopo la caduta della capitale in mano talebana, ma con alcune sostituzioni: Iraq al posto di Afghanistan, milizie al posto di talebani.

“Siamo andati in Iraq quasi 20 anni fa con obiettivi certi: prendere coloro che ci hanno attaccato l’11 settembre 2001, e assicurarci che al Qaida non potesse utilizzare l’Iraq come base per attaccarci ancora. Lo abbiamo fatto. Abbiamo drasticamente indebolito al Qaida in Iraq. Questo accadeva 20 anni fa. La nostra missione in Iraq non è mai stata quella di costruire una nazione, di creare una democrazia centralizzata e unificata. Il nostro interesse vitale in Iraq rimane oggi quello di sempre: prevenire un attacco terroristico sul suolo americano. Sostengo a pieno la mia decisione. Dopo 20 anni, ho imparato che non ci sarebbe mai stato un buon momento per ritirare le forze americane (…) Quindi che cosa è accaduto? I leader politici iracheni si sono arresi, hanno abbandonato il paese. L’esercito iracheno è collassato, a volte senza nemmeno provare a combattere”.

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