In fuga da Tokyo 2020 (nel 2021)

Giulia Pompili

A queste Olimpiadi gli sponsor non vogliono metterci la faccia. La disperazione giapponese

A poche ore dalla cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici di Tokyo, sono sempre di più le aziende giapponesi che, sebbene in modo non ufficiale, stanno prendendo le distanze dalla manifestazione. Il colosso dell’elettronica Panasonic ha fatto sapere che non manderà i suoi funzionari all’inaugurazione delle Olimpiadi estive, una decisione che segue quella di altre aziende già da tempo impegnate nella promozione di Tokyo 2020 come Asahi (bibite), Ntt (telecomunicazioni) e Fujitsu (informatica).

 

Lunedì scorso anche l’azienda automobilistica Toyota aveva annunciato che non avrebbe trasmesso sulla tv giapponese gli spot legati alle Olimpiadi, e che i suoi dirigenti non andranno allo stadio olimpico. Così, quando giovedì l’imperatore Hirohito, che pure il mese scorso si era detto molto scettico sull’opportunità di ospitare le Olimpiadi durante una pandemia, darà il via ufficiale alla manifestazione, attorno a lui ci saranno pochi superstiti istituzionali. Per la prima volta nella storia le aziende scappano da un’edizione dei Giochi olimpici, di solito molto remunerativi ma mai come quest’anno controversi.

 

Secondo gli ultimi sondaggi rilevati dai media giapponesi, soltanto l’80 per cento della popolazione nipponica è a favore della manifestazione. Tokyo è ancora in stato d’emergenza, e pur di assicurare un cordone sanitario (già bucato, per la verità: ci sono almeno quattro atleti positivi) gli stadi nella capitale saranno vuoti. L’eventuale presenza dei funzionari delle grandi aziende giapponesi  sarebbe vista come l’ennesima conferma dei privilegi di cui godono gli anziani e ricchi dirigenti rispetto ai cittadini comuni. 


Per il governo di Yoshihide Suga queste Olimpiadi si sono trasformate in un incubo. L’incubo più costoso di sempre. Già prima della pandemia l’esecutivo si era spinto molto oltre il budget iniziale di 7,5 miliardi di dollari, e il rinvio dal 2020 al 2021 costerà al Giappone circa 3 miliardi di dollari. Ma gran parte degli incassi di un’edizione olimpica arriva dai biglietti venduti, dagli sponsor e dall’indotto del turismo.

 

Molte delle aziende che adesso vogliono distanziarsi dai Giochi in realtà hanno già pagato la loro quota di sponsorizzazione, ma non avranno alcun ritorno d’immagine. E con zero spettatori ammessi e il turismo mondiale fermo gran parte del conto di queste Olimpiadi sarà pagato dai contribuenti. Che non sono contenti neanche dell’immagine pubblica che sta dando il paese: ieri il musicista Keigo Oyamada, in arte Cornelius, si è dimesso dal ruolo di compositore della cerimonia d’apertura dei Giochi per le polemiche legate a una sua vecchia intervista in cui ammetteva di aver bullizzato i suoi compagni di classe disabili. Ci sono già state almeno un paio di dimissioni eccellenti per dichiarazioni sessiste. Organizzare i Giochi olimpici, da Tokyo in poi, sarà sempre più difficile. A meno che non siete la Cina, che aspetta il fallimento del Giappone  per poter usare i Giochi invernali di Pechino 2022 e dire: vedete? Il nostro modello funziona meglio del vostro. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.